Presupposto della fattispecie criminosa, dunque, è la situazione di possesso della cosa altrui, sorto in base a qualsiasi titolo, purché non idoneo al trasferimento della proprietà.
Elemento soggettivo del reato è il “dolo specifico”, in cui sussistono la coscienza e la volontà di appropriarsi della cosa mobile altrui posseduta, allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante una condotta che eccede le facoltà o i diritti compresi nel titolo del possesso (la c.d. interversione del possesso), senza che sia indispensabile che il profitto ingiusto sia effettivamente conseguito (Cass. n. 32155/2012).
Molto affine al furto, si differenzia per il fatto che nel furto il reo si impossessa della cosa altrui, sottraendola a chi la detiene, mentre nel reato in questione la cosa è già nel possesso del reo.
Si differenzia dal peculato, per il soggetto agente, in quanto in quest’ ultimo la condotta criminosa è posta in essere o da un pubblico ufficiale su cose mobili appartenenti alla Pubblica Amministrazione o da incaricato di un pubblico servizio in ragione del suo ufficio.
La pena prevista ai sensi dell’art. 646 c.p è la reclusione fino a tre anni e la multa fino a euro 1.032,00, salvo un aumento di pena se il fatto è stato commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario.
Di recente, la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità o meno dell’ uso di una telecamera nascosta in un supermercato installata dal proprietario per controllare i propri dipendenti.
La vicenda riguardava, una cassiera condannata di furto dal Tribunale di Ancona sentenza riformulata in Appello in appropriazione indebita aggravata, che ricorreva in Cassazione eccependo l’inutilizzabilità delle video riprese effettuate dal suo datore di lavoro per violazione degli artt. 4 e 38 dello Statuto dei diritti dei lavoratori.
Si ricorda infatti che, l’ art. 4, comma 1°, della legge n. 300/1970 vieta l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Segue, il secondo comma che stabilisce gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede la Direzione Regionale del Lavoro, dettando ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti”.
Scopo della norma è la tutela della libertà e dell’ integrità morale del lavoratore.
Segue, l’ art. 38 che detta disposizioni penali in caso di violazione della normativa.
La recente sentenza della Cassazione n. 2890 del 16-22 gennaio 2015, conferma gli indirizzi giurisprudenziali in materia e dispone “ l’utilizzabilità nel processo penale delle videoriprese effettuate con telecamere installate nei luoghi di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi”.
E’ stato statuito, infatti, che sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all’interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo a beneficio dei patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, perché le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della riservatezza non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20722 del 18/03/2010 Ud. (dep. 01/06/2010 ) Rv. 247588; Sez. 5, Sentenza n. 34842 del 12/07/2011 Ud. (dep. 26/09/2011 ) Rv. 250947) .
Pertanto i risultati delle videoriprese non possono considerarsi prove illegali, illegittimamente acquisite, ex art. 191 cod. proc. pen., bensì prove documentali, acquisibili ex art. 234 cod. proc. pen.
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