Tra la sicurezza del lavoro e quella del diritto

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Ci si lamenta sovente, nonché a ragione, della qualità della regolamentazione prodotta dal legislatore nazionale, la cui propensione all’affastellamento nel tempo di norme variegate, alla scarsa attenzione a un rigoroso e costante esame di coerenza, nonché alla insufficiente valutazione della proporzionalità delle prescrizioni dettate rispetto ai fini prefissati rende il sistema ordinamentale oltremodo complicato, per usare un eufemismo.

La certezza del diritto risulta così svilita dalla circostanza che non può essere definito “certo” quanto stenta a essere compreso non solo dalla generalità cui esso è destinato, ma spesso anche dai consulenti ai quali i cittadini si rivolgono al fine di trovare il bandolo della matassa normativa in cui restano impigliati. Se a ciò si aggiunge il fatto che l’Esecutivo ricorre con molta frequenza allo strumento dei decreti legge in maniera a volte non fondatamente motivata, che in forza della relativa e non sempre accertata necessità e urgenza è esonerato dal compiere una qualsivoglia analisi d’impatto della regolamentazione predisposta, che gli obiettivi da esso talvolta non chiaramente definiti finiscono per perdersi nel disegno politico finalizzato più al consenso che al miglior risultato, il quadro può dirsi completo. E’ del tutto evidente che il legislatore nazionale, emanando precetti della cui chiarezza, efficienza ed efficacia può ragionevolmente dubitarsi, conferisce nella sostanza alla magistratura un potere smisurato, necessario affinché possa essere districato, interpretato e in concreto applicato e reso operativo il confuso coacervo di norme da cui si pretende sia disciplinato ogni piega e dettaglio del vivere civile. Sarà forse sulla base di un potere così consolidato che talora i giudici sembrano andare oltre i limiti della funzione esercitata anche laddove ciò non sarebbe necessitato dalle contingenze del caso. Non si fa riferimento a note iniziative da essi assunte, dalla tempistica sospetta e di rilevanza tale da incidere sulla politica nazionale, nonché idonee a indurre alle volte il dubbio di una commistione fra poteri dello Stato; bensì a ipotesi di ordinaria applicazione della legge, non particolarmente controverse, come si vedrà in prosieguo.

Con sentenza del 1 aprile 2014, n. 15028, la Cassazione Penale, Sez. IV, si è pronunciata relativamente all’infortunio verificatosi a danno di un lavoratore caduto da un ponteggio posto ad un’altezza di 1,80 m. da terra, privo di parapetto. La Suprema Corte ha ritenuto che nel caso di specie trovasse applicazione l’art. 16 del d.P.R.  n. 164/1956, che impone l’allestimento di adeguate  impalcature  o  ponteggi  o  idonee  opere  provvisionali per qualsiasi lavoro edilizio che venga “eseguito ad un’altezza superiore a due metri dal suolo”, così attenendosi alla valutazione “compiuta, con congrua e corretta motivazione” in un caso precedente (Cass. Pen. Sez. Un. 30.4.1997): di conseguenza, ha reputato dirimente nella fattispecie in esame l’altezza alla quale il lavoro era stato eseguito, come previsto dalla prescrizione sopra richiamata. La questione non porrebbe alcun problema, risultando acclarata la violazione della prescrizione stessa (l’altezza del ponteggio – 1,80 m. – in aggiunta alla statura del lavoratore dà una somma superiore ai 2 m. previsti per l’obbligo di protezioni), se non fosse che la norma cui la sentenza dei giudici di legittimità fa riferimento poteva ritenersi non più vigente all’epoca dei fatti oggetto del giudizio (2007). Giova chiarire preliminarmente che il d.P.R.  n. 164/1956 sopra richiamato è stato abrogato in toto dal d.lgs. n. 81/2008; che, specificamente, in luogo l’art. 16 del medesimo decreto, su cui la Cassazione fonda le conclusioni raggiunte, vige oggi l’art. 122 del decreto legislativo sopra richiamato (come modificato dal d.lgs. n. 106/2009), in forza del quale “Nei lavori in quota devono essere adottate, seguendo  lo  sviluppo  dei lavori stessi, adeguate  impalcature  o  ponteggi  o  idonee  opere  provvisionali o comunque  precauzioni  atte  ad  eliminare  i  pericoli  di caduta di persone e di cose (…)”; che l’art. 107 del decreto medesimo chiarisce cosa debba intendersi per “lavoro in  quota”: ossia una “attività  lavorativa che espone il lavoratore  al  rischio  di  caduta  da  una  quota  posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile”; che dette norme non erano ancora vigenti al momento del verificarsi dell’infortunio cui la Cassazione si riferisce. Tuttavia, prima dell’emanazione delle norme citate, attualmente disciplinanti la materia in discorso, il richiamato art. 16 d.P.R. n. 164/1956 era stato di fatto reso inoperante dall’art. 34, c. 1, lett. c-bis del d.lgs. n. 626/1994, come modificato dal d.lgs. n. 235/2003. Infatti, quest’ultimo articolo, di tenore analogo al menzionato art. 107, già nel 2003 aveva introdotto nella materia della sicurezza il concetto di “lavoro in quota” e il criterio in forza del quale l’obbligo di predisporre idonee protezioni è connesso non all’altezza a cui il lavoro viene eseguito, bensì a quella a cui si trova chi esegue il lavoro stesso, in quanto sia esposto al rischio di caduta da un dislivello superiore a 2 m.. La prescrizione in parola – anticipando quanto poi avrebbe costituito oggetto di compiuta regolamentazione da parte del d.lgs. n. 81/2008, come visto – aveva reso irrilevante la statura del lavoratore stesso ai fini del calcolo dell’altezza a cui un’attività viene eseguita, considerando determinante esclusivamente quella alla quale il lavoratore opera al momento dell’infortunio e sfrondando così il precetto di un elemento “soggettivo” atto a renderne meno agevole l’applicazione in concreto. Dunque, in forza del suddetto  art. 34, c. 1, lett. c-bis, risultava evidente non fosse necessario adottare particolari cautele per la sicurezza di chi si avvalesse di un supporto la cui altezza, sommata alla propria statura, gli facesse superare anche di pochi centimetri i 2 m. o addirittura, senza avvalersi di alcun supporto ma semplicemente poggiando i piedi al suolo, svolgesse un’attività ai 2 m. previsti dalla legge già solo sollevando le proprie braccia. Alla palese irragionevolezza della prescrizione precedente e degli adempimenti conseguentemente necessari la norma di cui all’art. 34, c. 1, lett. c-bis, aveva inteso porre rimedio: com’è, peraltro, confermato dalla circostanza che, successivamente, il d.lgs. n. 81/2008 aveva sancito l’abrogazione del corpus normativo il cui l’articolo considerato era contenuto, ridefinendo in maniera organica l’intera disciplina.

La suprema Corte ha, invece, convintamente affermato che l’interpretazione tesa a valorizzare l’altezza cui il lavoro viene “eseguito” non può essere superata da qualsivoglia altra che non tenga conto del dato letterale della prescrizione di cui all’art. 16, D.P.R.. 164/56: “sicché deve essere prevista e computata, ai fini della predisposizione dell’opera provvisionale del parapetto, oltre all’altezza alla quale è posto l’impalcato dall’eventuale piano di appoggio e all’altezza di quest’ultimo dal piano di terra o di calpestio, finanche la statura dell’operatore e, comunque, considerata l’effettiva altezza alla quale viene eseguito il lavoro in quota”. La Cassazione ha, quindi, con tutta evidenza, reputato che l’art. 16 sopra richiamato continuasse a essere vigente pur successivamente all’introduzione nell’ordinamento dell’art. 34, c.1, lett. c-bis, d.lgs. 626/94 e che, pertanto, le norme citate potessero dispiegare in contemporanea i propri effetti: la prima, con riguardo ai lavori effettuati “in quota”, ossia su un piano di calpestio posto a un’altezza superiore ai 2 m.; la seconda, invece, per quelli la cui “esecuzione” avvenisse a un’altezza superiore ai 2 m., ma su un piano di calpestio posto a qualsivoglia altezza ed, eventualmente, anche mancante. I giudici di legittimità non hanno, quindi, considerato importante la circostanza che, nel caso di un lavoro eseguito a più di 2 m. di altezza – come nel caso in cui ci si limiti anche soltanto a sollevare le braccia, si ribadisce – manca pressoché del tutto la ricorrenza di quel rischio che, per definizione, costituisce la ratio della normativa in materia di sicurezza sul lavoro; non hanno, quindi, valutato che il d.lgs. n. 235/2003 intendesse ovviare alla mancanza della suddetta ratio –  data l’irrilevanza del pericolo di infortunio nella fattispecie astratta di cui all’art. 16 – sanando così l’irragionevolezza di quest’ultima norma e delle cautele particolari da essa prescritte.

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, sarebbe agevole concludere l’esposizione in corso constatando che il richiamo da parte della Corte a una legge non più in vigore all’epoca dei fatti – né attualmente, com’è ovvio – è stato frutto, se non di un errore, quanto meno di una valutazione poco attenta. Tuttavia, una pronuncia del tenore di quella esposta, pur riferita a fatti disciplinati da norme diverse rispetto a quelle adesso presenti, testimonia qualcosa in più di quanto sancito espressamente: essa manifesta un orientamento giurisprudenziale irragionevolmente cautelante – per i motivi sottolineati in precedenza – con riguardo alla materia in discorso. Questa conclusione è di portata tale da incidere, comunque, in maniera determinante sulla concreta organizzazione dell’attività di chi opera nel settore in argomento, inducendo incertezza sulle misure da adottare in caso di lavori eseguiti a un’altezza superiore a 2 m. e, conseguentemente, sulla eventualità di contenziosi onerosi: pertanto, sembra necessario formulare qualche osservazione ulteriore.

E’ evidente la circostanza che la pronuncia della Suprema Corte è tale da inficiare il principio della certezza del diritto, che per alcuni giuristi è un “mito”, ma che nella sua accezione minimale si sostanzia nell’esigenza che i consociati possano contare su un’applicazione prevedibile delle leggi che regolano il proprio operato: al riguardo, come sopra dimostrato, il datore di lavoro poteva fondatamente ritenere che l’art. 34, c. 1, lett. c-bis, d.lgs. 626/94 disciplinasse la fattispecie concreta in discorso al momento del verificarsi dei relativi fatti. Anche il principio di legittimo affidamento risulta minato dalla pronuncia sopra citata, essendo vanificate le aspettative collettive circa l’idoneità delle norme, qualora non particolarmente complicate, a essere oggetto di interpretazione razionale e logica trasposizione nelle reali dinamiche relazionali: come si è visto, invece, la prescrizione di legge su cui la Corte ha basato la propria pronuncia, oltre a essere non più in vigore, appariva palesemente insensata. Soprattutto, viene svilito il principio di proporzionalità, secondo cui una disposizione non può imporre obblighi che limitino la sfera giuridica dei propri destinatari in maniera non commisurata al raggiungimento degli scopi voluti: come dimostrato, risultava  non aderente a tale principio l’art. 16 del D.P.R.. 164/56, che poneva a carico del datore di lavoro adempimenti non adeguati rispetto al risultato che, mediante le cautele prescritte, si voleva fosse realizzato. Il d.lgs. n. 235/2003 aveva sanato detta incongruenza, ma la pronuncia della Cassazione, riesumando la norma precedente, ha di fatto nuovamente creato la sproporzione rilevata. Quanto così sottolineato induce il dubbio che l’orientamento della Corte possa essere utilizzato anche in prosieguo, sia pure con riferimento alla diversa disciplina oggi esistente, poiché correlato non tanto all’interpretazione di una specifica norma, quanto a un atteggiamento pregiudiziale, potrebbe dirsi, in base al quale le cautele adottate in materia di sicurezza del lavoro non sono mai adeguate rispetto agli scopi prefissati: da ciò i magistrati sembrerebbero far scaturire la necessità di inasprire in via giudiziaria la valutazione di adeguatezza già effettuata legislativamente, in quanto reputata a priori comunque insufficiente. Va, innanzitutto, sottolineato al fine di fugare i dubbi nutriti da coloro i quali, a seguito della sentenza citata, non siano più sicuri dei comportamenti a quali debbano uniformarsi, che la sentenza stessa produce i propri effetti nel caso trattato, ma non inficia la vigenza del menzionato art. 122 del d.lgs. n. 81/2008, che regola attualmente la fattispecie considerata. Infatti, l’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, in materia di “abrogazione delle leggi”, prevede che essa si verifichi nel caso di un’espressa prescrizione in tal senso da parte del legislatore (abrogazione espressa), o di incompatibilità tra le nuove norme e quelle precedenti (abrogazione tacita) ovvero di una nuova legge disciplinante ex novo l’intera materia prima regolata dalla legge previgente (abrogazione implicita). Non ricorrendo alcuna delle fattispecie elencate, quindi, nonostante la pronuncia di cui sopra l’art. 122 del d.lgs. n. 81/2008 continua a essere operante: pertanto, ciò che rileva è l’altezza cui il lavoratore si trova e non quello a cui il lavoro viene eseguito. Di certo, il richiamo alle Preleggi e la conclusione così raggiunta non pongono un argine alla evidenziata tendenza della magistratura a superare i limiti del potere a essa spettante. Né è rassicurante la spiegazione, sopra ipotizzata, che ciò avvenga per lo più a causa di un rule maker poco attento al rispetto dei criteri di better regulation: sì che, di conseguenza, la magistratura stessa debba svolgere un’azione talora suppletiva dell’opera del legislatore, colmando lacune normative evidenti ovvero sfrondando copiose sovrabbondanze di precetti, investita del compito di trovare una qualche coerenza in una congerie di disposizioni dall’interpretazione complessa e dall’applicazione controversa. Il caso di specie evidenzia, come accennato, che uno degli effetti da ciò scaturito sembra essere l’inclinazione dei giudici ad andare oltre l’ambito di propria competenza, non limitandosi solo ad attribuire coerenza al sistema ordinamentale, ma spingendosi altresì a conformare a determinati principi etico-morali, da essi stessi stabiliti, lo spontaneo evolversi delle dinamiche sociali. Ciò risulta oltremodo pericoloso in quanto idoneo a distorcere il corretto svolgimento della funzione cui la magistratura è chiamata e, con esso, il naturale dispiegarsi delle relazioni tra individui. Il caso di specie è esemplificativo di quanto rilevato, poiché sembra che alla decisione assunta sia sotteso una sorta di favor nei confronti della categoria dei lavoratori e, al contempo, un certo pregiudizio verso quella dei datori di lavoro: come se questi ultimi fossero caratterizzati da una naturale tendenza a non adottare le cautele necessarie per i propri sottoposti, che rende questi ultimi bisognosi conseguentemente di una tutela più rigorosa, pur in assenza di qualsivoglia inadempienza comprovata nei loro riguardi. Le alterazioni nella gestione della giustizia e nel vivere civile che un tale atteggiamento può provocare sono di tutta evidenza.

Pertanto, e conclusivamente, ciò che rileva non è solo il fatto che la Cassazione, nonostante non vi fosse alcun dubbio interpretativo sulla disposizione vigente, abbia complicato il quadro di riferimento per i soggetti interessati, pretendendo di restare aderente a quanto in precedenza statuito da una sentenza relativa una norma ormai abrogata; quanto la circostanza, sopra rimarcata, che  il convincimento degli organi giudicanti di essere provvisti del potere di sentenziare sul piano sociale, etico e morale, oltre che su quello del diritto, può indurre conseguenze di non poco conto nei rapporti inerenti non solo ai soggetti giudicati nel caso concreto, ma alla collettività nel suo complesso.

Infine, prima di stigmatizzare il potere eccessivo di cui si avvale chi svolga attività giurisdizionale, come sovente avviene, la politica valuti come e in quale misura essa stessa abbia contribuito ad alterare l’equilibrio tra poteri costituzionalmente previsto, non legiferando in maniera corretta: per fortuna – o, forse, purtroppo – tutto si tiene quando ogni attore del sistema-Stato concorre a un pessimo risultato.

Vitalba Azzollini

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