Senato delle autonomie e città metropolitane: disegno di dubbia democraticità

Luigi Oliveri 11/02/14
Matteo Renzi ha una visione della storia e della geografia molto particolare. Probabilmente, sarà maturata in lui quand’era presidente della provincia di Firenze. Ovviamente, come adesso da sindaco, in quel quinquennio tutto fece, tranne che presidiare le incombenze proprie del ruolo, lanciato a “rottamare” e ad aspirare alla più prestigiosa poltrona di Palazzo Vecchio.

Impegnato solo ad assumere collaboratori suoi e degli assessori assegnando loro qualifiche previste per laureati, anche se i destinatari non lo erano (da qui la condanna in primo grado per danno erariale da parte della Corte dei conti), ad incaricare centinaia di consulenti e a giocare con la Pimpa, deve essersi persuaso che fare il presidente di una provincia è cosa assolutamente inutile.

Da qui l’analisi in stile “pensiero 2.0”: veloce, semplificativa al massimo, come in una chat a 140 caratteri, ragionamento binario, 1 o 0, bianco o nero. Conclusione: “province: no buono; comuni: buono”.

Maturata questa convinzione, secondo Renzi l’intera vita politica, economica, sociale, produttiva si deve incentrare esclusivamente intorno ai nuovi astri, i sindaci.

Ne sono dimostrazione il degradante disegno di legge Delrio in merito alla riforma delle province e delle città metropolitane.

In omaggio all’assunto “province: no buono”, le province vengono “svuotate”, per dare corpo alle città metropolitane. Che, nello squinternato progetto di Renzi e Delrio non saranno, come in tutti gli altri Paesi europei, un ente aggiunto ai livelli intermedi tra regioni e comuni, ma una sostituzione delle province, in diretta concorrenza con le regioni, che infatti le vedono come fumo negli occhi.

E poiché solo i sindaci sono bravi e capaci, i sindaci dei capoluoghi dei “fortunati” territori nei quali sorgeranno (“finalmente”, scrive sempre Delrio; già, la crisi mondiale dipende dall’assenza delle città metropolitane in Italia…) saranno a un tempo vertici del comune capoluogo e delle città metropolitane. Sicchè gli abitanti di Milano, per esempio, eleggendo il loro sindaco, influiranno anche sulla vita degli altri comuni. Una trovata molto democratica, non c’è che dire. Molto rispettosa dei territori, nonché del sostrato storico e sociale dell’Italia. E’ pur vero che nei grandi comuni (che, poi, in Italia non sono per nulla così grandi se paragonati alle città europee dei Paesi competitori) si concentrano Pil e infrastrutture. Ma, la provincia profonda dell’Italia è una risorsa da secoli, che, però, il ragionamento binario “no buono” vuole cancellare.

Lo stesso ragionamento viene, ora, esportato sulla brillantissima idea di costituire un “Senato delle autonomie”. Cioè, si vuole modificare il Titolo V della Costituzione per ridurre (cosa con divisibilissima) i poteri e le funzioni delle regioni, scriteriatamente ridisegnati nel 2001 per 4 voti da una maggioranza morente, e contestualmente, nonostante il ripiegamento avverso un “federalismo” sbagliato e dannoso, si vuole istituire un organo di autonomie, che nel frattempo si svuotano.

Ma, l’ulteriore beffa di simile disegno è dato dall’idea di come comporre il Senato. Ovviamente, da chi? Dai 108 sindaci dei comuni capoluogo di provincia.

Nel leggere queste idee dall’ironia non si può non passare al fastidio. Comuni capoluogo di che, se le province le vogliono abolire?

Ma, anche in questo caso: perché una parte sola della popolazione, i residenti di 108 comuni, debbono poter vantare una rappresentanza in un organo costituzionale chiamato a competenze (da capire) rilevanti sull’assetto di intere regioni e, par di comprendere, talvolta anche dello Stato?

Perché i sindaci dei capoluogo dei territori delle città metropolitane debbono concentrare in sé, anche la funzione di sindaci metropolitani e di senatori?

E’ un disegno organizzativo delle istituzioni non solo approssimativo e frettoloso, studiato a tavolino da consulenti e consiglieri di Renzi e Delrio che sembrano più apprendisti stregoni del diritto, ma, appunto irriguardoso della storia, della geografia, dell’economia italiana, che vede comunque nei territori provinciali un’ossatura formidabile, che dà linfa anche alle conurbazioni più forti e strutturate.

E’ un disegno che vuol privare intere aree geografiche e milioni di cittadini della loro rappresentanza, trasformando i sindaci in una sorta di feudatari che si spera siano così illuminati da non dimenticare le parti marginali di territori che governeranno pur se ben lontani da mura e campanili. Guardando, però, allo stato delle periferie delle città, è ben difficile sperare che in un brevissimo lasso di tempo, detti territori marginali vengano condannati a divenire la periferia della periferia, da una classe politica di sindaci che, diversamente dalla storia raccontata da Renzi e Delrio, non si è affatto distinta per buona amministrazione. Grandi comuni con bilanci eternamente in rosso, pletore di società in passivo, strade colabrodo, traffico impossibile, case pubbliche inesistenti, tasse locali ai massimi, salvataggi statali alle finanze disastrate, abusivismo edilizio senza controllo, asili nido inesistenti, scuole cadenti, centri talvolta scintillanti a fronte di quartieri popolari totalmente abbandonati, sono la regola, non l’eccezione.

Questa sarebbe la “classe politica” che dovrebbe condurre l’Italia fuori dalle secche, in contrasto con storia, demografia, geografia?

 

Luigi Oliveri

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