Venerdì è arrivata una pronuncia, a suo modo, storica per le recenti vicende della previdenza italiana: la Consulta ha dichiarato illegittimo il blocco dell’indicizzazione sulle pensioni come definito dalla norma “salva Italia”, voluta dal governo Monti nel tardo 2011, con, al suo interno, anche la disciplina per il cambio radicale nella legge del welfare.
La norma Fornero, così ribattezzata per il nome della ministra del Lavoro all’epoca della sua approvazione, prevedeva non solo l’incremento dei requisiti per richiedere la pensione, sia di età contributiva che anagrafica, ma anche lo stop all’adattamento degli assegni in base all’inflazione, così come avvenuto di regola negli anni precedenti, ogni qualvolta gli indicatori economici avessero segnalato una perdita di potere d’acquisto per gli assegni previdenziali.
A essere coinvolti, nella mannaia della legge Fornero, furono tutti quei pensionati percettori di prestazioni a partire da tre volte la minima, dunque, arrotondando, a partire da 1500 euro al mese.
Ebbene, nel 2015 la Corte costituzionale sta legiferando molto di più di quanto non abbia fatto, finora, il Parlamento. Nel mese di gennaio, infatti, la Consulta ha detto no al referendum abrogativo della legge Fornero promosso dalla Lega Nord, gettando nello sconforto milioni di pensionati che speravano nella sua cancellazione con il ripristino della vecchia normativa.
Ora, invece, la linea dei giudici costituzionali è andata in direzione opposta, con l’esame dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici) per un ricorso promosso contestualmente dal Tribunale di Palermo, e da due uffici regionali della Corte dei conti, quelli di Emilia-Romagna e Liguria.
In sostanza, la Corte ha dichiarato illegittimo il blocco del’indicizzazione alle pensioni che è avvenuto per due anni consecutivi, finalizzato al contenimento della spesa previdenziale. Nel dispositivo emanato contro il decreto Fornero, la Consulta ha dichiarato irregolare l’incidenza dello stop alle rivalutazioni per i redditi medio-bassi, una mossa che, a parere dei giudici, mette in pericolo il principio di adeguatezza della norma.
Dunque, ora si accavallano i conti sul possibile impatto di una simile sentenza nei conti pubblici: inizialmente, si è parlato di 5 miliardi di euro da restituire ai pensionati, mentre, ora, la stima è già salita a 15 e forse anche di più.
Quello che appare certo è che le risorse dovrebbero essere prelevate dal disavanzo degli anni 2012 e 2013, quelli a cui la sentenza si riferisce, al fine di pesare il meno possibile sulle casse dello Stato. Ma se il prezzo di questa sentenza continuerà a lievitare in questo modo, difficile pensare che non verranno chiesti sacrifici ulteriori per coprire il buco sulle pensioni.
Tutto ciò, ovviamente, mettendo in serio rischio gli sforzi che, molto faticosamente, stanno emergendo per una riforma radicale delle pensioni, partendo dal prestito pensionistico fino a un’eventuale modifica del meccanismo di conteggio dei requisiti minimi.
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