Dirigenti pubblici a difesa dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione

A Roma il 24 ottobre, nell’incontro organizzato dall’Unione Nazionale dei Dirigenti Statali, UNADIS, i dirigenti pubblici rigettano la riforma della dirigenza pubblica e annunciano una ferma protesta nel caso in cui il Governo non sia disposto ad ascoltarli. Ragioni condivisibili, ma cosa si nasconde dietro la maestosa riforma? (Clicca qui per approfondire).

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Il parere del Consiglio di Stato

Il parere del Consiglio di Stato sullo schema di decreto legislativo attuativo della legge di riforma della dirigenza pubblica (art. 11, L. 124/2015) approvato dal Governo a fine agosto 2016, esprime un chiaro disappunto sulla ratio ispiratrice e sui contenuti della manovra del Governo sull’argomento e svela la vera intenzione che si cela dietro le parole di esaltazione della meritocrazia nella versione immaginata dall’esecutivo.

L’obiettivo non dichiarato è però evidente e si legge senza alcuno sforzo nei commenti e nelle delucidazioni della Consulta. La classe dei servitori dello Stato, che per definizione, cultura e prescrizione ordinamentale  presta la propria attività a servizio della Repubblica, come ricorda bene l’articolo 98 della Costituzione, è ridotta a servire il gruppo di potere e, per tale ragione, è stato necessario prevedere meccanismi di decadenza automatica delle funzioni a periodi molto ristretti, che consentono la sua sostituzione al cambio del potere e, comunque, ogni qualvolta se ne riconosca l’opportunità dalla parte politica.

Il Consiglio di Stato ha spiegato le motivazioni che impongono, in uno stato di diritto, sostenuto dal principio di legalità e contrassegnato, secondo l’evoluzione normativa, dal principio basilare della distinzione del potere di indirizzo politico da quello gestionale, di rispettare l’autonomia dei dirigenti e di mantenere in equilibrio i due poteri evitando così di innescare un meccanismo di prevaricazione della politica che si traduca in  violazione delle norme poste a fondamento del sistema costituzionale.

Dirigenti pubblici: la distinzione del rapporto di servizio da quello di ufficio

La lezione della Consulta si è spinta inoltre sul campo della distinzione del rapporto di servizio da quello di ufficio della dirigenza pubblica allo scopo di dimostrare il diverso significato dell’uno rispetto all’altro. E, in effetti a giudicare dal pasticciato contenuto delle norme inserite nella bozza, sembra che il Governo abbia del tutto ignorato l’esistenza di un rapporto di servizio con lo Stato, conseguente all’espletamento di un pubblico concorso, che fa conseguire l’assunzione del dirigente a tempo indeterminato, e si è concentrato unicamente sul rapporto di ufficio scaturente dallo specifico incarico  assegnatogli per arrivare alla conclusione che è possibile rimuovere il dirigente qualora questi non ottenga, nel breve termine di qualche anno, contrassegnato, tra l’altro, da notevoli penalizzazioni sul trattamento economico, un nuovo incarico dirigenziale.

Il dirigente infatti che non ottiene incarichi, anche per motivi diversi dal conseguimento di valutazioni negative, viene cancellato dal ruolo salvo che non accetti un demansionamento a funzionario che gli consenta l’accesso ad altra attività in caso di disponibilità di posti.  Il Governo gioca a tira e molla  con chi si è conquistato il lavoro a suon di sacrifici senza riconoscergli alcun diritto e ne umilia la funzione come se si trattasse di merce di scarsissimo valore. Una vera e propria sovversione che dovrebbe fare riflettere sulla validità di un esecutivo che non rispetta le regole costituzionali e si arroga il compito di riformare lo Stato e i pilastri su cui esso poggia.

Secondo lo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri a fine agosto, viene dunque meno il diritto al posto di lavoro e all’incarico dirigenziale in tal modo ponendo in essere un rapido sistema di licenziamento dei dirigenti  che non ha eguali nella storia della Repubblica dal 1948 ad oggi. Un modo  veloce di provvedere al licenziamento dei dirigenti, epperò in linea con la filosofia che in atto guida il Governo Renzi, ma che è connotato da vizi di legittimità costituzionale notevolmente visibili al punto da indurre il Consiglio di Stato a rammentare le regole che presidiano la democrazia e lo Stato di diritto contro ogni irresponsabile gestione personalistica del potere politico.

In disparte le considerazioni ulteriori sotto il profilo tecnico-giuridico, che evidenziano una chiara stortura delle disposizioni del decreto rispetto al testo della legge delega sulla dirigenza, non è senza fondamento l’affermazione secondo la quale la riforma della dirigenza pubblica, così come concepita dal Consiglio dei Ministri nello schema di fine agosto, è in perfetta adesione allo spirito della riforma costituzionale che, dietro il paradigma dello snellimento, della velocizzazione e della riduzione dei costi, cela il disegno della trasformazione della forma di governo parlamentare verso uno spinto presidenzialismo di tipo autocratico, al quale risulta funzionale una classe dirigente asservita alla politica in assoluto contrasto con i principi  ispiratori della Costituzione repubblicana nata nel 1948, che esaltano l’imparzialità e l’indipendenza quali principi indissolubili della democrazia e degli ideali da cui essa è originata.

Lucia Maniscalco

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