Quirinale, breve storia delle elezioni a presidente della Repubblica

Redazione 15/04/13
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Quello che verrà eletto nei prossimi giorni sarà il dodicesimo presidente della Repubblica italiana. Dal 1946 a oggi, la storia delle elezioni al Quirinale è costellata di scelte per acclamazione e altre ben più tormentate, in corrispondenza, spesso, dei periodi più difficili dell’ultimo secolo.

Dopo la fine della monarchia, il primo presidente della Repubblica fu Enrico De Nicola, da molte parti tuttora indicato come amico dei Savoia nel referendum che cambiò per sempre la connotazione istituzionale dell’Italia. A favorire la sua salita al Colle, fu l’accordo tra i maggiori padri costituenti, tra cui Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti. Una soluzione condivisa da tutto l’arco antifascista, dunque, che permise di guidare la Repubblica nel biennio in cui la Carta fondamentale venne scritta e posta in vigore.

Nel maggio 1948, quindi, iniziò il primo, vero settennato di un Presidente della Repubblica italiana. Toccò proprio al giurista liberale Einaudi, la cui nomina richiese quattro scrutini, guidare la nazione nei primi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Einaudi salì al Quirinale grazie a 518 voti su 872.

Quindi, nel 1955, il cattolico Giovanni Gronchi fu eletto a Capo dello Stato. Anche per lui, si dovette arrivare alla quarta chiama, con l’abbassamento del quorum per l’elezione al vertice dello Stato. L’esito della votazione fu di 658 voti su 853, comunque una maggioranza ampia, che assise sul Colle un convinto antifascista compagno di don Sturzo fin dal 1919.

Nel pieno del boom economico, il presidente della Repubblica eletto nel 1962 rispose al nome di Antonio Segni. Uomo forte della Dc degasperiana, quella di Segni fu la prima, difficile votazione per l’inquilino del Colle, che si protrasse fino al nono scrutinio, quando la maggioranza semplice di 443 voti su 842 lo investì della carica. Segni rimase in carica solo due anni, ma turbolenti, durante i quali si verificò il tentato Colpo di Stato del generale De Lorenzo. Alla fine, a metterlo fuori gioco nel 1964 fu un ictus improvviso.

Così, a soli due anni di distanza, i partiti politici furono convocati per eleggere nuovamente il presidente della Repubblica. Qui, le divisioni si erano fatte laceranti, con il quadro politico del Paese non più unanime come negli anni successivi alla caduta del regime. Dopo ben 21 scrutini, venne eletto presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, socialista e padre del Psdi, il partito social-democratico italiano. La sua elezione al vertice delle istituzioni fu realizzata grazie a 646 voti su 937 complessivi.

Alla fine del 1971, quindi, si concluse il seguente e, finora, più incerto “Conclave laico”. A prendere il posto di Saragat, dopo 23 scrutini, fu Giovanni Leone, democristiano di ferro che viene eletto grazie all’appoggio del Msi con un totale di 518 voti su 996. Una scelta che ebbe indubbie ripercussioni nel decennio di “piombo”.

Quindi, la distensione istituzionale – ma non sociale, con il terrorismo al suo culmine – dopo due elezioni sofferte, arrivò con Sandro Pertini, anch’egli eletto nel 1978 dopo un numero piuttosto elevato di scrutini, 16, ma in grado di raccogliere infine un consenso di 832 grandi elettori su 995, il massimo storico nelle votazioni quirinalizie. Partigiano, ex socialista, riuscì a a rinvigorire la carica di presidente della Repubblica come vera guida della nazione.

Quindi, arriviamo alla metà degli anni ’80, con la salita al Colle di un personaggio certo sui generis, che sorprendentemente riuscì ad essere eletto già al primo scrutinio, con la quota di 752 voti su 997. Si tratta di Francesco Cossiga, fino a oggi il più giovane a essere investito della carica di Capo dello Stato, a 57 anni. Con Cossiga anche il Quirinale si apre alle nuove forme di comunicazione, anche se le difficoltà per l’Italia, tra mafia e Tangentopoli, furono tutt’altro che irrilevanti.

Proprio le stragi di Cosa nostra, nel 1992, posero fine a una delle elezioni più difficili, nel 1992, dove a sfiorare il quorum fu, in due occasioni, il leader Dc Arnaldo Forlani, che poi rinunciò dopo la strage di Capaci e la conseguente elezione dell’appena nominato presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro con 672 voti su 1014. Democristiano e padre costituente, Scalfaro fu il presidente dell’avvento del berlusconismo, con il quale ebbe modo di scontrarsi anche pubblicamente.

Arriviamo così al 1999, quando la rotta fu nettamente invertita grazie a una personalità in grado di riscuotere apprezzamento a tutte le latitudini politiche e istituzionali: Carlo Azeglio Ciampi, ex governatore della Banca d’Italia e presidente di un governo “tecnico” nei primi anni ’90, fu eletto al primo scrutinio con 707 voti su 990.

Il settennato di Ciampi, quindi, fu seguito dall’arrivo del primo esponente del vecchio Pci, Giorgio Napolitano, che invero riscosse una maggioranza più risicata, 543 voti su 990 al quarto scrutinio, guidando poi con fermezza la Repubblica attraverso la crisi economica più difficile della sua storia.

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