I nuovi consorzi di comuni in Sicilia al vaglio del Commissario dello Stato

Massimo Greco 17/03/14

In attesa di conoscere il verdetto del Commissario dello Stato, il disegno di legge n. 642 di riforma dell’ente intermedio siciliano approvato dall’Assemblea Regionale Siciliana l’11 marzo 2014 merita un primo commento a caldo che tenti di focalizzare le numerose questioni che il Parlamento siciliano ha lasciato aperte e/o che ha affrontato con mera superficialità.

La riforma, fortemente voluta dal Governatore Crocetta, mira a sostituire le vecchie province regionali con i consorzi di comuni in attuazione della precedente norma programmatica n. 7/2013 e in stretta coerenza con l’art. 15 dello Statuto siciliano che, com’è noto, non prevede l’ente intermedio provincia ma il “libero consorzio di comuni”. Nell’articolare tale volontà, l’ARS omette però di richiamare la precedente norma programmatica n. 14/2012 e soprattutto la legge istitutiva dei liberi consorzi di comuni (denominati province regionali) n. 9/86. Si evidenzia quindi una voluntas legis che ancora prima di essere censurata sotto il profilo della tecnica legislativa pone un serio problema di coordinamento di norme che disciplinano nel tempo il medesimo ente intermedio siciliano. Difficoltà che aumentano per la mancata approvazione di specifiche, quanto opportune, disposizioni abrogative di quelle che si pongono in contrasto con la novella disciplina. In tale contesto, il ricorso allo strumento del criterio cronologico, e/o del carattere speciale delle disposizioni, per risolvere le antinomie sarà per l’interprete indispensabile ma non lo metterà al riparo di potenziali quanto probabili contenziosi.

Ma procediamo con ordine, analizzando le disposizioni contenute nel disegno di legge che presentano, all’evidenza, anomalìe censurabili sotto il profilo costituzionale.

L’art. 1, comma 1, disciplina l’istituzione di nove liberi consorzi comunali che, in sede di prima applicazione e fino all’approvazione della legge di cui all’articolo 2, coincidono con le nove province regionali esistenti costituite dalla l.r. n. 9/86 e dalla l.r. n. 17/89, le quali assumono la denominazione di “liberi consorzi comunali”. Il Successivo comma 2 afferma che ciascuno dei nove liberi consorzi è composto dai comuni appartenenti alla corrispondente provincia regionale.

La citata disposizione presenta alcuni profili d’incostituzionalità per violazione del principio di ragionevolezza  e per violazione del principio di buon andamento della P.A. sancito dall’art. 97 Cost. La novella normativa pretende di disciplinare l’istituzione dei consorzi di comuni senza tenere conto che detti consorzi, in attuazione all’art. 15 dello Statuto, risultano già istituiti dalle citate l.r. n. 9/86 e l.r. n. 17/89, peraltro richiamate dallo stesso art. 1 del disegno di legge. I liberi consorzi di comuni, denominati province regionali, sono stati infatti regolarmente istituiti in Sicilia attraverso un procedimento amministrativo che ha visto coinvolti, ancorchè attraverso la procedura del silenzio assenso, tutti i comuni siciliani. Una nuova istituzione di detti consorzi di comuni esporrebbe a facili contenziosi proprio per l’esigenza di rispettare i principi di ragionevolezza e di buon andamento della P.A.. Invero, più saggio sarebbe stato disciplinare non la istituzione ex novo dei liberi consorzi comunali ma le modalità di costituzione di nuovi consorzi di comuni riaprendo i termini previsti dalla l.r. n. 9/86. Il fatto che con la l.r. n.9/86 il legislatore abbia superato i limiti statutari per avere sostanzialmente introdotto nell’ordinamento regionale un ente territoriale di governo non previsto dall’art. 15 dello Statuto (come affermato in via incidentale dal Tar Palermo[1]) non rende inefficace l’avvenuta istituzione degli attuali nove liberi consorzi i comuni. N’è, tanto meno, l’attribuzione della denominazione “province regionali” può mettere in discussione un dato di fatto istituzionale frutto di una sedimentazione di atti sia di rango primario (le citate l.r. n. 9/86 e l.r. n. 17/89) che di rango secondario (decreti e circolari emessi all’uopo dall’Assessorato Reg.le alle Autonomie locali).

Peraltro, l’aggettivazione “libero” che precede il “consorzio di comuni” contenuta nell’art. 15 dello Statuto, ancorchè non esplicitata, esclude l’ipotesi che l’aggregazione consortile possa essere imposta dal legislatore. Senza il riconoscimento in capo ai singoli comuni della libertà di autodeterminare il consorzio a cui aderire non saremmo in presenza di un libero e volontario consorzio, ma di un consorzio obbligatorio che non troverebbe cittadinanza giuridico-organizzativa nell’ordinamento regionale. In questa direzione argomentativa si registra quanto già statuito dall’Alta Corte per la Regione Siciliana, secondo cui, “Tali consorzi non possono non avere origine dalla volontà dei rappresentanti comunali, ai quali spetterebbe precisare le finalità, i mezzi, gli organi pur nel quadro di una legge regionale, mentre le province regionali, sia pure con la definizione legislativa di liberi consorzi, sono istituite dalla Regione per legge che ne definisce i caratteri, i fini, gli organi, e ogni altro elemento istituzionale. L’unica facoltà lasciata ai comuni è quella di potere riunirsi, sotto date condizioni e formalità, in nuove province, e quella di poter passare da una provincia all’altra. Si tratta di una notevole facoltà, che però lascia intatto l’ordinamento prestabilito e non dà modo di instaurare il libero consorzio”[2].

Deve, infine, per mera completezza porsi in evidenza che l’introduzione dei consorzi di comuni in luogo degli enti territoriali di governo, ancorchè previsti dall’art. 15 dello Statuto, si troverebbero fuori dal nuovo contesto ordinamentale. Infatti  l’art. 2, comma 28, della legge n. 244/2007, recante la finanziaria per l’anno 2008, prevede al fine di garantire la semplificazione della varietà e della diversità delle forme associative comunali e del processo di riorganizzazione sovra comunale dei servizi, delle funzioni e delle strutture che ad ogni amministrazione comunale è consentita l’adesione ad una unica forma associativa per ciascuna di quelle previste dagli articoli 31, 32 e 33 del TUEL. Inoltre, gli enti locali devono rispettare i termini previsti dall’art. 2, comma 186, lettera e) della legge n. 191/2009 che prescrive la soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali. L’art. 16, comma 28, del d.l. n. 138/2011, convertito nella legge n. 148/2011, prevede infatti che, al fine di verificare il perseguimento degli obiettivi di semplificazione e di riduzione delle spese da parte degli enti locali, sia il Prefetto ad accertare l’eventuale inadempimento entro i termini stabiliti ed a comminare il commissariamento secondo le procedure di cui all’art. 8, commi 1,2,3 e 5 della l. n. 131/2003. Orbene, trattandosi di un consorzio di comuni reso obbligatorio da una legge regionale, questo sarebbe esonerato dal citato obbligo di soppressione, come opportunamente previsto dall’art. 2, comma 28 della L. n. 244/2008, tuttavia la contraddizione sotto il profilo strutturale e funzionale rimane.

Il successivo comma 6 dell’art. 1 stabilisce che i consorzi continuano ad esercitare le funzioni già attribuite alle province regionali mantenendo la titolarità dei relativi rapporti giuridici. Il comma 7 stabilisce che i consorzi continuano ad utilizzare le risorse finanziarie, materiali e umane già di spettanza delle corrispondenti province regionali. Anche tali previsioni contrastano l’art. 97 della Costituzione perché non tengono conto che le funzioni amministrative di tipo impositivo non possono essere esercitate da un ente sprovvisto dello status di ente territoriale di governo. Il soggetto attivo del rapporto tributario (sia in relazione all’an che in relazione al quantum) non può che essere un ente pubblico dotato dello specifico imperium (potestà impositiva); potere che deve essere necessariamente esercitato dagli organi elettivi, secondo le procedure democratiche e non mediante delega a soggetti consortili, o associativi, quali sono i consorzi di che trattasi, politicamente irresponsabili perché sprovvisti di autonomia politica.

Peraltro, l’art. 119 della Costituzione attribuisce alle sole Province la facoltà di stabilire ed applicare tributi. Tale articolo stabilisce chiaramente che le “Province…hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa…Le Province hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio”. La legge delega in materia di federalismo fiscale n. 42 del 05/05/2009 costituisce l’attuazione del citato art. 119 Cost., assicurando autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni, garantendo i principi di solidarietà e di coesione sociale in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e di garantire la loro massima responsabilizzazione e l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti. L’art. 11 di tale legge, rubricato “Principi e criteri direttivi concernenti il finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane” prevede il finanziamento delle funzioni fondamentali anche delle province. Su questa architettura istituzionale, la cui applicabilità nelle regioni a statuto speciale è circoscritta agli articoli 15, 22 e 27[3], si dovrebbe quindi realizzare il principio costituzionale dell’autonomia finanziaria, contenuto nell’art. 119 della Costituzione, di ciascun soggetto territoriale del sistema, fondata su risorse proprie, compartecipazioni ed eventuali riequilibri perequativi. Sulle norme del federalismo fiscale trova consacrazione il nesso inscindibile tra assetto delle competenze amministrative e assetto delle risorse finanziarie, nella prospettiva di una piena valorizzazione dell’autonomia finanziaria delle province regionali. In tale contesto, fermo restando le prerogative riconosciute nello Statuto agli articoli 36 e 38, “anche per le Regioni speciali appare ineludibile l’applicazione del criterio dei costi standard, superando la logica dei trasferimenti legati ai costi storici o a <<contrattazioni>> nell’ambito della definizione delle norme d’attuazione o delle leggi finanziarie annuali, in modo che – pur salvaguardando le maggiori sfere di autonomia e di funzioni riconosciute – non ci si discosti da un’impostazione di sistema che deve sostanzialmente fondarsi su principi comuni e sulla ratio delle pari opportunità, di cui l’art. 119 è inequivocabilmente espressione, anche a tutela della coesione nazionale”[4].

La questione della natura giuridica dell’ente intermedio rileva non poco ai fini dell’esercizio delle funzioni impositive. Infatti, mentre il libero consorzio di comuni ha tradizionalmente (art. 31 del TUEL), ma anche secondo le previsioni di cui all’art. 20 della l.r. 18 marzo 1955 n. 17 ed all’art. 13 del d.l. del Presidente della regione n. 6 del 29/10/1955, “…natura di ente pubblico non territoriale, dotato di autonomia amministrativa e finanziaria” ed avente natura associativa e strumentale rispetto agli enti che vi partecipano, la provincia regionale è, anche per espressa volontà del legislatore (art. 4, comma 3, L.r. n. 9/86) un ente pubblico territoriale che realizza l’autogoverno della comunità consortile e sovrintende, nel quadro della programmazione regionale, all’ordinato sviluppo economico e sociale della comunità medesima. Secondo il Giudice delle leggi, “La provincia è, per sua natura ente territoriale e tale è anche la provincia siciliana, la quale, sia pure con l’attuale regime di amministrazione straordinaria, sopravvive fino a quando verranno creati i liberi consorzi tra comuni (art. 266 dell’ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione Siciliana”[5].

L’ente consortile costituisce certamente un’entità soggettiva autonoma e distinta dai singoli comuni che ne fanno parte, sicchè ogni attività svolta dai propri organi va imputata esclusivamente all’ente che essi rappresentano e non ai vari soggetti che di questo fanno parte e che hanno contribuito a costituire, pertanto “l’ente consorziale gode di propria soggettività”[6]. Tuttavia, l’ente consortile non può contare sulla rete di protezione costituzionale, invece prevista per gli enti locali, in quanto sprovvisto del requisito dell’autonomia politica sotteso allo status di ente di governo territoriale. Infatti, “Il Consorzio d’ambito (quantunque composto dai Comuni rientranti nell’A.T.O.) non può essere annoverato tra gli enti dotati di <<autonomia>> costituzionalmente protetta”[7]. Diversa è invece per la giurisprudenza la dimensione giuridica dell’ente locale secondo cui “gli enti locali non possono farsi rientrare nel concetto di enti pubblici regionali o vigilati dalla Regione, trattandosi di enti autonomi che nella legislazione regionale vengono generalmente indicati come  <<enti locali territoriali>>”[8].

Il libero consorzio di comuni è quindi un ente che presenta solo due tipi di autonomia, quella amministrativa e quella finanziaria, risultando sprovvisto della terza autonomia, quella politica, di cui è invece dotato l’ente territoriale sia comunale che provinciale. Dello stesso avviso è la citata giurisprudenza del Tar Palermo[9], secondo cui “l’art. 15 dello Statuto attribuisce, evidentemente, una diversa configurazione all’assetto istituzionale sovra comunale rispetto a quello attualmente esistente e scaturito dalla l.r. 6/5/1986, n. 9 e s.m.i. che ha attuato la norma costituzionale solo apparentemente secundum legem nel momento in cui ha determinato l’organizzazione delle province nella Regione Siciliana, come nel resto dell’Italia, quali enti locali territoriali dotati di autonomia anche politica e non solo amministrativa e finanziaria”.

La trasformazione dell’attuale ente territoriale di governo in ente consortile genera quindi un problema che il disegno di legge in questione sembra non affrontare adeguatamente. Questa considerazione si impone anche alla luce del generalissimo principio vigente in materia tributaria, dotato di dignità costituzionale nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 23 Cost., e certamente valevole anche con riguardo alla fiscalità locale, secondo il quale l’esercizio della potestà impositiva nei confronti dei cittadini richiede, quale suo indispensabile presupposto, una legge attributiva della relativa potestà pubblicistica (no taxation without representation).  Ne deriva che l’esercizio del potere impositivo, espressione diretta della sovranitas, non può essere delegata ad enti che non siano investiti, direttamente ex lege, della potestas impositionis e, quindi, soggetti al controllo diretto dei cittadini (soggetti passivi d’imposta).

Risulteranno pertanto sprovvisti di adeguata copertura legislativa le funzioni amministrative riferite ai tutti i tributi ancora oggi accertati e riscossi dalle province regionali: l’addizionale all’accisa sull’energia elettrica; il tributo per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene ambientale, l’imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile dei veicoli; la compartecipazione al tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti; l’imposta provinciale di trascrizione; il tributo per il controllo degli impianti di riscaldamento termico; la TOSAP.

La mancata riscossione dei citati tributi si ripercuoterà inevitabilmente sulle entrate dei consorzi di comuni e, di riflesso, sui sistemi finanziari dei comuni consorziati, costretti a ripianare le fisiologiche perdite d’esercizio per assicurare il pagamento delle retribuzioni delle risorse umane impegnate nei settori tributari delle province regionali.

Il successivo comma 7 stabilisce che i consorzi di comuni continuano ad utilizzare le risorse finanziarie, materiali e umane già di spettanza delle corrispondenti province regionali. Questa disposizione viola sia l’art. 120 Cost. che l’art. 117 comma 2 lett. e) Cost. perché la Regione siciliana, ancorchè dotata di Statuto speciale, non ha competenza su materie attribuite alla sfera statale come quella finanziaria. Più precisamente, le province regionali hanno una dotazione finanziaria basata su tre fonti: 

1) di derivazione regionale, su cui l’Assemblea Regionale Siciliana ha piena competenza;

2) di derivazione nazionale, come le accise sull’energia elettrica che lo Stato trasferisce alla Regione, per poi essere assegnate alle stesse province;

3) capacità impositiva, come l’imposta provinciale di trascrizione (IPT), l’addizionale provinciale sulla tassa dei rifiuti, la tosap, il tributo ambientale per i conferimenti in discarica, ecc..

Sui trasferimenti di cui ai punti 2 e 3 il Parlamento siciliano non ha alcuna competenza legislativa, in quanto la stessa materia è attribuita alla sfera statale. Orbene, venendo meno le province o, meglio, trasformando le stesse in enti consortili privi di autonomia politica, in assenza di una specifica previsione statale, non può ipotecarsi un trasferimento automatico delle risorse finanziarie statali in capo ai costituendi consorzi di comuni. Da qui la violazione dell’art. 120 Cost. per l’assenza di preventive intese Stato-Regione Siciliana finalizzate ad introdurre norme di coordinamento in materia, nonché la violazione dell’art. 117 comma 2, lett.e) Cost. che attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici. Di riflesso vi è pure la violazione dell’art. 81 Cost. che prescrive la copertura finanziaria per ogni norma che comporta spesa pubblica.

La ricaduta sull’equilibrio finanziario che deve essere assicurato sia dallo strumento finanziario del costituendo consorzio, e di riflesso dai singoli strumenti finanziari dei comuni consorziati, è in re ipsa. Bisogna qui ricordare che le regole del patto di stabilità finanziaria vengono poste in relazione all’esigenza di assicurare il concorso degli enti territoriali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, in considerazione del fatto che i vincoli sul disavanzo e sul debito, previsti dal patto di stabilità’ e crescita (Regolamento UE n. 1466/1997), si riferiscono al complesso delle amministrazioni pubbliche e quindi anche ai costituendi consorzi di comuni. Al tempo stesso, la disciplina del patto di stabilità interno è inquadrata nell’ambito del titolo V° della Costituzione, nel senso che essa reca i princìpi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, e 119, comma secondo, della Costituzione. Il riferimento alla funzione di coordinamento della finanza pubblica vale non solo a indicare la funzione del patto di stabilità interno, ma anche a individuare il fondamento della competenza dello Stato nel dettarne la disciplina con propria legge. In relazione al Titolo V, il rispetto delle regole del patto di stabilità interno viene altresì posto in relazione all’esigenza di garantire la “tutela dell’unità economica della Repubblica”, che, ai sensi dell’articolo 120 della Costituzione, può giustificare l’intervento sostitutivo dello Stato nei confronti delle regioni e degli enti locali.                                                                                                                                                                              

Il successivo art. 2, comma 2, prevede che nel caso di costituzione di ulteriori consorzi di comuni, il comune con il maggior numero di abitanti assumerà il ruolo di capofila del consorzio. Detta disposizione, frutto di un emendamento aggiuntivo al disegno di legge originario, mira a creare un’inconferente supremazia in capo al comune che presenta il maggior numero di abitanti, omettendo di considerare che in siffatta tipologia di consorzio di comuni, il cui obiettivo è solamente quello di una gestione associata di servizi e funzioni riconducibili all’area vasta, non risulta affatto necessario attribuire un ruolo di capofila, avendo tutti i comuni del costituendo consorzio pari dignità istituzionale, fermo restando l’ovvia esigenza di una governance individuata con criteri ponderati. E’ probabile, come si vedrà anche nelle successive disposizioni, che il legislatore abbia difficoltà ad accettare un cambiamento così radicale nel sistema dell’ente intermedio, ritenendo che il ruolo di comune capofila sia riconducibile, in qualche maniera, a quello di capoluogo della provincia regionale. Sfugge però al legislatore regionale che, a differenza del consorzio di comuni, la provincia regionale rimarca, in linea con l’evoluzione dottrinaria di interpretazione dei principi costituzionali circa l’ordinamento degli enti locali e l’attuazione dello stato sociale, le componenti essenziali del territorio e di polo di direzione (che comporta l’individuazione fisica del centro operativo: il capoluogo) per lo sviluppo economico-sociale delle comunità che racchiude, per la formazione ed attuazione della programmazione regionale, per la razionale organizzazione delle strutture dei servizi e per l’attuazione del decentramento regionale ed anche statale.

Il successivo comma 4 subordina l’efficacia delle deliberazioni dei consigli comunali previsti dal comma 1, in ordine alla volontà di costituire un consorzio di comuni, all’esito favorevole di un referendum confermativo da svolgersi entro sessanta giorni dalla data di approvazione della delibera consiliare.

Questa previsione risulta aggravare inutilmente il procedimento amministrativo finalizzato alla costituzione del consorzio di comuni. Invero, il referendum rappresenta uno strumento di partecipazione diretta del cittadino opportuno, e in certi casi necessario, allorquando è in discussione una decisione pubblica che investe uno degli elementi fondanti dell’ente territoriale di governo: la sovranità, la comunità e il territorio. Orbene, il consorzio di comuni per quanto già argomentato non è un ente rappresentativo della comunità locale e come tale risulta sprovvisto del requisito della sovranità. In tale contesto l’introduzione dello strumento referendario risulta inconciliabile per un ente consortile chiamato a fare una scelta priva di connotati politici ma meramente amministrativo-gestionale. Il consorzio di comuni (volontario o necessario poco importa in questa sede) è infatti uno strumento dei comuni, cioè un’organizzazione pubblica che consente l’esercizio associato di funzioni amministrative, e/o la gestione associata di servizi pubblici, nel contesto della fase esecutiva dell’azione amministrativa. Peraltro, l’indirizzo politico può essere espresso da un ente dotato di autonomia politica e non anche da un ente, come il consorzio che, come già detto, risulta sprovvisto dell’autonomia politica. Né, tanto meno, il legislatore regionale può introdurre meccanismi istituzionali “ibridi” nel sistema della autonomie locali senza tenere conto della ratio sottesa alla previsione del “libero consorzio di comuni” di cui all’art. 15 dello Statuto.

Il successivo art. 3 comma 3, stabilisce la gratuità delle funzioni esercitate da tutti gli organi del consorzio di comuni. Questa disposizione, nell’impallidire la delicata funzione pubblica che lo stesso legislatore affida agli amministratori del consorzio, finisce per equiparare il consorzio di comuni ad un’associazione di volontariato, la cui gratuità delle funzioni svolte dai propri iscritti nell’ottica della mutualità ne caratterizza i rispettivi scopi statutari.

Orbene, il totale azzeramento di ogni forma di remunerazione rasenta la violazione dell’art. 51 della Costituzione secondo cui “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento………”. In applicazione di tale principio l’art. 77, comma 1 del d.lgs n. 267/2000 ha infatti affermato che “La Repubblica tutela il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche pubbliche nella amministrazioni degli enti locali ad espletare il mandato, disponendo del tempo, dei servizi e delle risorse necessari ed usufruendo di indennità e di rimborsi spese nei modi e nei limiti previsti dalla legge”. Se è vero che l’esercizio delle funzioni elettive dà luogo ad un rapporto di servizio onorario, il cui compenso è scevro, ex art. 54 Cost., da qualsiasi connotato di sinallagmaticità, con la conseguenza che la corresponsione del gettone di presenza o dell’indennità di funzione non costituisce retribuzione, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione[10], è anche vero che secondo la letteratura che si è affermata sul tema, il concetto di munus pubblicum implica lo svolgimento di un compito che viene sì “donato” alla collettività, ma non in chiave eminentemente gratuita, presupponendo pur sempre una situazione di debito a carico di coloro che ricevono tale “dono”[11]. 

Il successivo comma 4 stabilisce che le spese relative alle trasferte dei componenti degli organi del consorzio di comuni sono a carico dei comuni di appartenenza. Questa disposizione risulta priva di copertura finanziaria, atteso che i Comuni si troverebbero ad affrontare nuove spese per l’esercizio delle nuove funzioni ai medesimi affidati ancorchè per il tramite dello strumento consortile. Si tratta infatti di centinaia di componenti che saranno chiamati a svolgere il proprio mandato sia negli organi assembleari che in quelli esecutivi dei consorzi di comuni.

Il successivo art. 5, comma 1, stabilisce che il Presidente del consorzio di comuni è eletto, a maggioranza assoluta dei voti, dai consiglieri comunali e dai sindaci dei comuni aderenti allo stesso fra i sindaci dei comuni appartenenti al consorzio. Su tale disciplina si possono avanzare dubbi di costituzionalità.

Invero, anche se di per sé un’elezione di 2° grado degli organi di governo del consorzio appare coerente con la natura associativa del consorzio a differenza di quella rappresentativa della provincia, le modalità con le quali si perviene all’elezione del Presidente del consorzio appaiono ledere i principi di rappresentatività democratica. Infatti l’elezione del Presidente ad opera dei sindaci e dei consiglieri potrebbe anche giustificarsi come meccanismo che attua una indiretta rappresentanza della popolazione, ma a patto che si proceda ad una votazione ponderata. Non è infatti ipotizzabile attribuire lo stesso valore numerico al voto espresso da un sindaco o dai consiglieri di un piccolo comune rispetto a quello espresso da un sindaco di un comune che presenta un numero maggiore di abitanti. Più saggio sarebbe stato attribuire il diritto ad un voto in proporzione al numero di abitanti calcolati sulla base della popolazione residente. In mancanza di un tale accorgimento la violazione dell’art. 3 della Costituzione appare evidente.   

I successivi articoli 7, 8 e 9 disciplinano l’introduzione nell’ordinamento locale delle città metropolitane di Catania, Messina e Palermo. Dette disposizioni violano palesemente l’art. 15 dello Statuto siciliano. Infatti dalla lettura dei tre articoli emergono chiari e nitidi gli indicatori sintomatici di un modello di ente intermedio, ancorchè governato mediante sistemi elettorali di 2° grado, diverso da quello ancora oggi consentito dall’ordinamento siciliano è più comunemente noto come “area metropolitana”. Al di là del nomen iuris di volta in volta utilizzato dai legislatori statali e regionali e delle questioni connesse al dimensionamento degli spazi territorialmente configurati, il punctum pruriens del tema concerne la sostanziale differenza tra il modello di area metropolitana prevalentemente funzionale ancora oggi previsto dalla vigente l.r. n. 9/86 – il solo consentito dall’art. 15 dello Statuto – e il modello di area, ovvero di città metropolitana, che il citato ddl n. 642 vorrebbe introdurre in Sicilia.

Il carattere meramente funzionale dell’individuazione e della delimitazione delle aree metropolitane della l.r. n. 9/86, trova conferma nella determinante circostanza che, a differenza di quanto accade oggi col ddl in trattazione n. 642, non viene prevista la costituzione di nuovi organi preposti al funzionamento delle aree stesse. Siamo infatti in presenza di una super provincia regionale che non solo non mantiene la propria permanenza nel sistema siciliano delle autonomie locali ma, al contrario, viene potenziata e dotata di maggiori compiti, in forza del trasferimento in capo alla stessa di più funzioni amministrative rispetto alle restanti province regionali. Funzioni amministrative che, per la loro rilevanza sovra comunale o di area vasta, vengono sottratte ai comuni in vista di migliori risultati sul piano dell’efficienza, dell’efficacia e della razionalità. Quindi non una nuova tipologia di ente sub provinciale, ma più semplicemente un diverso assetto delle funzioni ripartite tra i due livelli di governo locale presenti nell’ordinamento regionale.

Illuminante in questa direzione è quanto già affermato dalla Corte Costituzionale con sent. n. 286/1997 secondo cui “nel modello siciliano, il governo dell’area metropolitana assume una fisionomia prevalentemente funzionale, comportando un mero trasferimento di funzioni di c.d. area vasta dai comuni alla provincia regionale (……) senza che ad esso si ricolleghi, così come accede invece per la legge n. 142 del 1990, un riassetto istituzionale interno all’are medesima”. In sostanza, la Corte Costituzionale ha già affrontato detta questione, riconoscendo alla l.r. n. 9/86 di avere previsto l’unico modo possibile per individuare delle aree metropolitane senza violare l’art. 15 dello Statuto che, come già detto, non prevede l’istituzione di enti diversi rispetto ai Comuni ed ai loro Liberi consorzi. Tema controverso che è stato sollevato proprio in occasione di un contenzioso presso il TAR di Palermo sorto nei primi anni novanta tra la provincia regionale di Catania e il comune di Catania (governati, ratione temporis, rispettivamente dall’On. Nello Musumeci e dall’On. Enzo Bianco). L’allora Sindaco di Catania eccepiva il fatto che l’area metropolitana così come concepita dalla l.r. n. 9/86 non poteva essere individuata perchè non prevista dall’art. 15 dello Statuto. La Corte Costituzionale, rispondendo al quesito di costituzionalità sollevato dal TAR nei citati termini escludeva, in mancanza di una modifica all’art. 15 dello Statuto, l’introduzione nell’assetto dell’ordinamento locale regionale di un ente di governo locale diverso da quelli espressamente previsti, accettando il solo modello funzionale di area metropolitana individuato dalla l.r. n. 9/86 proprio perché non comportava la nascita di un nuovo ente.

L’individuazione e delimitazione delle città metropolitane in Sicilia non può comportare, quindi, l’istituzione di un nuovo ente come si pensa di fare attraverso il citato art. 7 del ddl in discussione, non essendo questa l’articolazione dell’ordinamento delle autonomie locali prevista dall’art. 15 dello Statuto, ma può costituire soltanto il necessario presupposto per porre in essere le ulteriori attività decisionali in ordine alla forma di gestione che consentirà poi l’effettivo esercizio delle relative funzioni.

Corollario di questo ragionamento è che anche l’eventuale adeguamento dell’ordinamento siciliano ai “principi dell’ordinamento della Repubblica” contenuti nell’art. 23, comma 5, del ddl “Delrio” n. 1542 del 20/08/2013 in materia di Città metropolitane, che nei giorni scorsi il Premier Renzi ha suggerito di accantonare in attesa di una contro-riforma del titolo V° della Costituzione, richiede non la “sbrigativa” istituzione delle Città metropolitane di Catania, Messina e Palermo, ma la più complessa ed impegnativa introduzione di tale tipologia di ente locale all’interno dello Statuto speciale (che ricordiamo avere rango costituzionale), accanto ai comuni ed ai liberi consorzi di comuni.

Pertanto, se giuridicamente si può accettare la trasformazione delle attuali province regionali in liberi consorzi di comuni in forza di una stretta e formale adesione al dato testuale dell’art. 15 dello Statuto, il medesimo e rigoroso metodo non può non essere seguito anche per evidenziare l’impossibile introduzione con legge ordinaria delle ambite Città metropolitane di Catania, Palermo e Messina.

Il successivo art. 10, comma 1, rinvia alla legge istitutiva l’individuazione delle funzioni da attribuire ai liberi consorzi e alle città metropolitane, salvo poi, al comma 2, stabilire che i liberi consorzi e le città metropolitane esercitano funzioni di coordinamento, pianificazione, programmazione e controllo in materia territoriale, ambientale, di trasporti e di sviluppo economico. Ora, in disparte la contraddizione contenuta nelle due disposizioni, occorre qui evidenziare che la tecnica legislativa utilizzata è delle peggiori perché introduce disposizioni normative su argomenti già ampiamente disciplinati da leggi precedenti senza alcuna avvertenza, come già detto, di coordinamento. Non si comprende infatti se le disposizioni contenute nei primi due commi dell’art. 10 vanno coordinate con quelle esistenti o si pongono in modo alternativo e/o sostitutivo secondo il principio della successione cronologica delle leggi. Già con Circolare del 24/02/1986 n. 1.1.26/10888.9.68 la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell’auspicare un processo di miglioramento qualitativo della produzione legislativa attraverso un affinamento ed una omogeneizzazione della tecnica di formulazione dei testi normativi, aveva scoraggiato le modifiche implicite o indirette di atti legislativi vigenti, privilegiando la modifica testuale della massima ampiezza possibile (“novella”). Nella medesima Circolare veniva scoraggiata altresì la tecnica delle abrogazioni implicite, sollecitando quanto più possibile forme di abrogazione esplicita.

Orbene, il citato comma 2 sembra attribuire ai consorzi di comuni quelle funzioni amministrative di interesse provinciale che l’art. 33 della l.r. n. 10/2000, aveva già conferito alle province regionali rubricandole funzioni e compiti di “area vasta”. Secondo il già citato criterio cronologico della successione delle leggi saremmo infatti in presenza di un’abrogazione implicita di quelle parti della l.r. n. 9/86 e della l.r. n. 10/2000 in contrasto con la novella legge (e col suo progetto!?). Ma nella fattispecie le funzioni individuate dal 2° comma dell’art.10 non sembrano configurare ipotesi di antinomie.

Tuttavia la natura programmatica della disposizione contenuta nel 1° comma dell’art. 10 ci obbliga a rimandare una riflessione più compiuta sulla coerenza e sulla ragionevolezza delle nuove disposizioni normative con l’attuale ordinamento delle autonomie locali in Sicilia e col sistema del federalismo fiscale introdotto nell’ordinamento con la l. n. 42/2009 in attuazione dell’art. 119 Cost. ed in particolare con i principi ed i criteri direttivi concernenti il finanziamento delle funzioni fondamentali dell’ente intermedio che incrociano inevitabilmente il pluralista disegno istituzionale.

Attuale è invece l’esigenza di focalizzare l’attenzione sul 2° comma della novella disposizione regionale. Ciò, anche in considerazione che la disposizione in questione, assumendo una valenza “orientativa”, è idonea ad incidere direttamente e subitaneamente sulle situazioni giuridiche soggettive dei costituendi consorzi di comuni, in quanto potenzialmente dotata di efficacia innovativa, non abbisognando della necessaria intermediazione dell’annunciata legge con la quale si individueranno nello specifico le materie riferite alle funzioni amministrative.

In tale contesto di disordine istituzionale, che inevitabilmente si ripercuote sul buon andamento della P.A. prescritto dall’art. 97 Cost., appare utile richiamare le disposizioni attuali e vigenti che disciplinano le funzioni amministrative dei liberi consorzi di comuni, denominati province regionali, istituiti in forza della l.r. n. 9/86.

L’art. 4 della l.r. 6 marzo 1986 n. 9 prevede espressamente che le “Province Regionali”, costituite dalla aggregazione dei comuni siciliani in liberi consorzi, oltre ad essere dotate della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria, sono titolari di funzioni proprie ed esercitano le funzioni delegate dallo Stato e dalla Regione. Inoltre, l’art. 2, comma 1, della l.r. n. 30/2000, statuisce che “I comuni e le province sono titolari di funzioni proprie e di quelle conferite loro con legge dello Stato e della Regione, secondo il principio di sussidiarietà”.

Oltre alle competenze espressamente previste agli artt. 9 e 12 in materia di programmazione economico-sociale e pianificazione territoriale, il legislatore regionale individua all’art. 13 in capo alle “Province Regionali” le funzioni amministrative nelle materie dei servizi sociali e culturali, dello sviluppo economico, dell’organizzazione del territorio e della tutela ambientale. In materia di funzioni e compiti amministrativi il legislatore regionale attraverso la l.r. n. 10/2000, art. 33, comma 1 e 2, ha altresì stabilito che le “Province Regionali”, oltre a quanto già specificatamente previsto dalle leggi regionali precedenti, esercitano le funzioni ed i compiti amministrativi di interesse provinciale qualora riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale, salvo quanto espressamente attribuito dalla legge regionale ad altri soggetti pubblici.

Non vi è chi non veda nell’illustrato quadro normativo un chiaro riconoscimento della Regione di funzioni proprie in capo ai costituiti liberi consorzi di comuni, denominati “Province Regionali”, ontologicamente connaturate all’autonomia statutaria di tali enti, diverse da quelle attribuite espressamente con legge regionale. Peraltro tale differenziazione sembra coerente con quella già operata dalla Costituzione tra funzioni proprie previste dall’art. 118, comma 2, e funzioni fondamentali previste dall’art. 117, secondo comma, lettera p). In questa prospettiva e senza richiamare la più recente legge sul federalismo fiscale n. 42/2010, attesa la parziale applicazione della medesima nell’ordinamento regionale siciliano, va rilevato che in forza dei citati art. 4 della l.r. n. 9/86 ed art. 2, comma 1, della l.r. n. 30/2000, attuativi anche dell’art. 119 Cost., le “Province Regionali” devono poter disporre di un’autonomia di entrata e di spesa tale da finanziare integralmente tutte le funzioni pubbliche, sia quelle proprie che quelle attribuite mediante legge. Ci si chiede come potranno i costituendi consorzi di comuni che, per quanto sopra illustrato non potranno esercitare alcuna funzione impositiva, attuare i citati principi del federalismo fiscale. Il legislatore regionale sembra sottovalutare la necessità di mantenere una stretta connessione tra funzioni amministrative e risorse. Infatti la parziale attuazione nell’ordinamento regionale delle norme sul federalismo fiscale di cui alla legge n. 42/2010 non impallidisce il principio sotteso all’art. 119 della Costituzione, secondo il quale l’insieme delle funzioni amministrative rappresenta, anche per le Regioni a Statuto speciale, il presupposto per la determinazione delle risorse finanziarie.

In questo scenario istituzionale non bisogna dimenticare che i servizi pubblici a rilevanza economica (soprattutto quelli relativi alla gestione delle risorse idriche ed alla gestione integrata dei rifiuti), pur essendo stati espunti dalla Corte Costituzionale dalle funzioni amministrative fondamentali dell’ente locale[12], sono alla ricerca di un livello istituzionale di dimensione provinciale sostitutivo delle soppresse AA.T.O.. Infatti il comma 1 dell’art. 25 della legge n. 27/2012, di conversione del D.l. n. 1/2012, prevede che l’organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei individuati in riferimento a dimensioni comunque non inferiori alla dimensione del territorio provinciale e tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale cui le Regioni si conformano ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettere e) e s) della Costituzione.

La discutibile tecnica utilizzata dal legislatore regionale per le illustrate ragioni, impone però una considerazione finale di merito concernente i rapporti gerarchici tra le fonti normative in discussione. L’approvazione dell’odierno disegno di legge n.  642 non è infatti una ragione sufficiente per ritenere implicitamente superata una norma quale quella dell’art. 13 della l.r. n. 9/86 che disciplina le funzioni amministrative dei liberi consorzi di comuni, denominati province regionali né, tanto meno, quelle contenute negli articoli 10 e 12 in materia di programmazione economico-sociale e pianificazione territoriale della medesima l.r. n. 9/86 come riprese dalla l.r. n. 10/2000. Una norma più risalente può essere implicitamente abrogata da una norma successiva quando vi è contrasto tra l’una e l’altra, in applicazione del più volte citato criterio cronologico, che è uno dei criteri attraverso cui vengono risolte le antinomie presenti nell’ordinamento. Ma occorre pur sempre dimostrare che vi sia contrasto tra le due norme, perché altrimenti il criterio di soluzione delle antinomie non scatta.

Orbene, se si sostiene che le nuove funzioni amministrative individuate dal comma 2° dell’art. 10 sono le sole di cui potranno disporre i consorzi di comuni allora siamo in presenza di una soluzione implicitamente abrogativa delle previgenti previsioni di legge. Se invece si sostiene che le novelle funzioni amministrative non sono sostitutive di quelle che le province regionali già esercitano ma complementari, allora viene il dubbio della reale portata innovativa di tale previsione, attesa l’immanenza nell’ordinamento regionale della disposizione di cui all’art. 33, comma 1, della L r. n. 10/2000 secondo cui: “La provincia regionale, oltre a quanto già specificamente previsto dalle leggi regionali, esercita le funzioni ed i compiti amministrativi di interesse provinciale qualora riguardino vaste zone  intercomunali o l’intero territorio provinciale, salvo quanto espressamente attribuito dalla legge regionale ad altri soggetti pubblici”. Saremmo quindi tentati di optare per la prima ipotesi con le avvertenze necessarie.

Infatti, andrebbe in questa sede indagata meglio anche la stessa portata normativa della l.r. n. 9/86, che certamente è stata introdotta nell’ordinamento attraverso una norma primaria ma che, secondo una scala gerarchica a maglie più strette, si trova su un gradino paritario rispetto all’odierno disegno di legge. Siamo infatti in presenza di una norma che non solo attua per la prima volta il principio di valorizzazione e promozione dell’autonomia locale contenuto nell’art. 5 della Costituzione ed applicato all’ente intermedio, ma che dà attuazione altresì a quanto previsto dall’art. 15 dello Statuto siciliano. Trattandosi, quindi, di una norma attuativa sia di una previsione costituzionale che di una previsione statutaria, si ritiene che la stessa operi ad un livello certamente non inferiore a quello della novella disciplina[13]. Per analogia va qui rilevato che la Corte di Cassazione[14], evidenziando la portata innovativa del TUEL, ha affermato che tale legge ha profondamente inciso nei rapporti tra fonti normative e statali e locali.

Il successivo art. 12, comma 1, nel disciplinare le modalità di distacco di un comune dal libero consorzio o dalla città metropolitana, prescrive un limite demografico e un limite territoriale. Non è infatti ammessa la costituzione di un consorzio di comuni, l’adesione di un comune ad altro consorzio di comuni ovvero l’adesione di un comune alla città metropolitana qualora per effetto del distacco, nel libero consorzio di comuni di provenienza la popolazione risulti inferiore a 150.000 abitanti, ovvero si interrompa la continuità territoriale tra i comuni che ne fanno parte.

I vincoli demografici e territoriali introdotti dalla citata disposizione finiscono per svuotare l’autonomia di scelta (rectius, la libertà) che hanno i singoli comuni nel decidere a quale consorzio (libero?) aderire in violazione dell’art. 15 dello Statuto. Il parametro demografico, ad esempio, preclude al comune di Piazza Armerina di fare la propria “libera” scelta. Essendo la popolazione del Comune di Piazza Armerina pari a 22.196 abitanti, l’eventuale distacco dalla provincia di Enna, che presenta secondo l’ultimo censimento ufficiale (2011) 171.893 abitanti, provocherebbe un abbassamento non consentito della soglia demografica.

M anche il parametro territoriale si pone in contrasto con il citato art. 15 dello Statuto. Il 2 comma dell’art. 12 non ammette il distacco di un comune dalle città metropolitane qualora per effetto del distacco nelle predette città metropolitane si interrompa la continuità territoriale o venga meno la dimensione sovraccomunale. In questo modo i comuni interclusi individuati nell’area metropolitana dai decreti del Presidente della Regione 10 agosto 1995 e pubblicati nella GURS n. 54 del 21/10/1995 non potranno esercitare alcun diritto di scelta. Basti pensare, a titolo esemplificativo al comune di Acireale, costretto a rimanere nell’area metropolitana perché il suo distacco farebbe perdere la continuità territoriale a quei comuni, già individuati all’interno della medesima area metropolitana, che non confinano con la città di Catania.


[1] Sent. n. 1276/2012 e sent. n.17/2014. Sullo specifico argomento si consenta altresì il rinvio a Massimo Greco “Dalle Province Regionali ai Liberi Consorzi di Comuni. Riflessioni su una scelta di politica emozionale”, su “Amministrazione In cammino”, rivista elettronica di diritto pubblico, pubblicata sul web all’indirizzo www.amministrazioneincammino.luiss.it, 24/11/2011; su “La faccia intermedia del Leviatano”, Novagraf, dicembre 2011, Assoro(EN); su “Non profit”, Centro di Ricerche Interuniversitario sui Servizi di pubblica Utilità alla Persona, Maggioli Editore, n. 17/2011;

[2] Sent. 21/07/1955 – 4/10/1955 n. 90.

[3] Si veda Corte Cost. n. 201/2010.

[4] Gian Candido De Martin, “I nodi per attuare (correttamente) una riforma di sistema incompiuta”, Amministrazione in Cammino, 10/10/2008.

[5] Corte Cost. sent. n. 96/68.

[6] Tar Lombardia, sent. n. 644/1993.

[7] Tar Palermo, sez. I, sent. 04/07/2008, n. 881.

[8] Tar Palermo, sez. I, sent. 29/01/1996, n. 28.

[9] Tar Palermo, sent.  19 giugno 2012 n. 1276.

[10] Cons. Stato, sez. V°, sent. 10/09/2010 n. 6526. 

[12] Coste Cost. sent. n. 325/2010.

[13] Corte Cost. 18 maggio 1959 n. 30, Corte Cost. n. 13/1974.

[14] Corte Cass. Sez. Unite Civ., sent. 16/06/2005 n. 12868.

Massimo Greco

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