Massì, tagliamo il compenso dell’avvocato

Renato Savoia 14/01/13
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Il T.A.R. della Lombardia (la sezione staccata di Brescia, per essere precisi) in questi giorni è improvvisamente balzato agli onori delle cronache, e non solo quelle di stretto diritto amministrativo.

Infatti è stata diffusa l’ordinanza n. 1528 del 10 settembre 2012, relativa alla liquidazione del compenso spettante all’avvocato che ha assistito in un procedimento avanti il predetto organo di giustizia amministrativa un cittadino avente diritto al gratuito patrocinio.

Ebbene, il punto è che nell’ordinanza, premessa l’affermazione che  “nella specie il giudizio aveva ad oggetto una questione sulla quale, all’epoca della proposizione del ricorso, esisteva una giurisprudenza favorevole del tutto costante e inequivoca (possibilità di ottenere la cd. legalizzazione del cittadino straniero irregolarmente presente sul territorio nazionale pur in presenza di una condanna per l’abolito reato di cd. clandestinità), tanto che esso è stato definito con sentenza di cessata materia del contendere per essersi la p.a. rideterminata in via di autotutela;” nonchè richiamati gli art. 4, secondo comma, del D.M. 140/12 (“Nella liquidazione il giudice deve tenere conto del valore e della natura e complessita’ della controversia, del numero e dell’importanza e complessita’ delle questioni trattate, con valutazione complessiva anche a seguito di riunione delle cause, dell’eventuale urgenza della prestazione.“) e art. 1, settimo comma dello stesso decreto (“In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa.“) ha poi di fatto “tagliato” alla metà la parcella presentata dall’avvocato per la liquidazione.

A questo punto ci sono alcune riflessioni  che sottopongo all’attenzione del lettore.

Anzitutto, mi chiedo quante e quali siano le altre professioni in cui il compenso venga determinato da un soggetto terzo anzichè da chi effettua la prestazione, e oltretutto a posteriori, cioè a prestazione svolta.

Forse che un dentista non decide lui il prezzo del suo lavoro? O un ingegnere? O un commercialista?

Ancora: a voler seguire il ragionamento seguito dal T.A.R. nell’ordinanza, in realtà la conclusione cui giungere dovrebbe essere totalmente opposta.

Mi spiego: la decurtazione effettuata è stata giustificata con la facilità del lavoro svolto. A parte che, notoriamente  sono sempre facili i mestieri degli altri e mai il proprio, ma visto che stiamo parlando di un ricorso contro la Pubblica Amministrazione, e la materia del contendere era pacifica vista l’esistenza di giurisprudenza “costante e univoca” a favore del cliente dell’avvocato, non era forse la Pubblica Amministrazione che avrebbe dovuto operare diversamente, ovvero non costringere il cittadino a rivolgersi ad un avvocato per una vicenda così chiara?

D’altra parte, è noto,  il cittadino non può proporre un ricorso davanti al T.A.R. da solo, senza avvocato.

Quindi ci troviamo da un lato una Pubblica Amministrazione (cioè: lo Stato) che funziona male, e costringe un cittadino a recarsi dall’avvocato per poter presentare un ricorso, e dall’altra un organo giurisdizionale (quindi sempre lo Stato) che “punisce” l’avvocato che ha prestato la propria opera al cittadino, tagliandogli il compenso.

Ha senso tutto ciò?

Oltretutto ne ha ancora meno se guardiamo alla funzione di prevenzione e diminuzione del contenzioso (atavico e a oggi irrisolto problema di questo Paese): infatti, e non occorre essere dei tecnici del settore, se uno sa che anche se sbaglia tanto l’errore gli costa poco, secondo voi è incentivato  o no a ridurre gli errori per il futuro?

Dunque una brutta ordinanza, sotto molteplici punti di vista, che, peraltro, ribadisce una mia convinzione: ovvero la necessità che un magistrato abbia alle spalle una precedente esperienza di qualche anno nell’avvocatura.

Anche perché è un po’ troppo facile, tagliare i compensi degli altri senza conoscerne davvero il lavoro. O no?

 

Renato Savoia

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