La L. 20 maggio 1970, n. 300 detta norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà e dell’ attività sindacali nei luoghi di lavoro, norme sul collocamento e sulle sanzioni disciplinari e di licenziamento.
Mentre, l’ art. 2119 c.c. detta la disciplina a livello normativo e al riguardo dispone che: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.
Ai sensi della Legge n. 108/1990, art. 2 comma 2, il licenziamento per essere valido deve non solo essere giustificato, ma deve essere comunicato al lavoratore in forma scritta e qualora il lavoratore ritenga il licenziamento illegittimo, può impugnarlo entro 60 giorni dalla sua comunicazione.
L’impugnazione va fatta in forma scritta, anche tramite lettera raccomandata spedita al datore di lavoro, ovvero “con qualsiasi atto scritto, anche extra-giudiziale, idoneo a rendere nota la sua volontà”
Per stabilire l’ esistenza della giusta causa di licenziamento occorre accertare in concreto se in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti alla posizione che in esso abbia avuto il prestatore d’ opera e quindi alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava la specifica mancanza commessa dal dipendente considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo ma anche nella sua portata soggettiva specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è posta in essere ai suoi modi ai suoi effetti ed all’ intensità dell’ elemento psicologico dell’ agente, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo gradevole cosi da farla venir meno la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale quindi da esigere sanzione non minore di quella massima definitivamente espulsiva (95/5742).
Tanto premesso, il caso de quo, riguardava una Società Cooperativa che ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione impugnando la sentenza della Corte di Appello dell’Aquila che aveva riconosciuto illegittimo il licenziamento emesso nei confronti di una loro dipendente.
La Corte Territoriale sull’argomento cosi rubricava: “ la condotta del dipendente per quanto censurabile sotto il profilo della correttezza, non costituiva un’infrazione della disciplina del lavoro tanto grave, sia soggettivamente che oggettivamente, da ledere in maniera irreparabile la componente fiduciaria, essendo risultata episodica l’indicata sgradevole denominazione di documenti di lavoro, che non evidenziava un manifesto e ripetuto disprezzo al decoro e all’immagine aziendale, né poteva annoverarsi nella fattispecie dell’insubordinazione. Non essendo emersi altri abusi nell’utilizzo dei beni aziendali affidati alla lavoratrice, la vicenda, valutata nella sua complessità, non giustificava, sotto il profilo della congruità, l’adozione della massima sanzione espulsiva, potendo la condotta agita essere punita con una sanzione di tipo conservativo”.
La Società Cooperativa lamentava violazione dell’ art. 2119 c.c. , reiterazione dei fatti, contestazione della sanzione più grave.
Sul punto, intervenne la Suprema Corte che con sentenza n. 5878 del 24/03/2015 rigettava il ricorso e cosi disponeva: “ il fatto addebitato si connota oggettivamente come disdicevole e passibile di sanzione disciplinare, ma non configura gli estremi della insubordinazione, né quelli di una specifica inottemperanza alle mansioni affidate alla lavoratrice, né è in sé idoneo a ledere concretamente l’immagine della Società datrice di lavoro e dei suoi organi”.
“Rimane, in sostanza, nell’ambito di una condotta volgare e certamente non commendevole, ma non assurge a gravità ed importanza tale da ledere, in termini di irrimediabilità, il rapporto fiduciario e da giustificare quindi la sanzione espulsiva”.
Una sentenza che tutela un principio costituzionale quale quello del lavoro.
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