Dunque sembra che i giudici della Suprema Corte sembrano aver rivisto completamente il principio tradizionale secondo il quale l’attività dell’avvocato non è un’obbligazione di risultato, ma di mezzi. Con questa sentenza comincia a tramontare la corrente di pensiero secondo la quale l’avvocato ha sempre diritto alla parcella, anche se non può assicurare un risultato positivo ai fini della risoluzione della controversia. La pronuncia in commento, infatti, stravolge questo orientamento e, nel caso preso in considerazione, nega al professionista il compenso, visto che l’attività di questi viene ritenuta inutile a fini della tutela degli interessi del cliente.
Il caso specifico prevedeva al vaglio della Suprema Corte, che i parenti di un uomo deceduto in un sinistro stradale avevano scelto di far causa all’assicurazione per percepire l’indennizzo. Il loro avvocato, dopo aver notificato la citazione al responsabile del sinistro, aveva lasciato estinguere il sinistro per non aver notificato l’atto anche alla compagnia. Lo stesso legale aveva poi scordato di proporre appello contro la decisione del giudice che aveva dichiarato l’estinzione della causa.
Così i parenti della vittima, danneggiati e beffati due volte, hanno agito contro l’avvocato per chiedere il risarcimento, dal momento che la prestazione da questi svolta è stata a dir poco inutile. Nel dettaglio, la Cassazione ha dichiarato che la mancata impugnazione della decisione con cui era stata dichiarata l’estinzione della causa aveva reso di fatto inutile l’intero mandato conferito al professionista.
La conclusione è che per la Suprema Corte, dunque, l’attività del legale deve sempre rivolgersi ad avere una utilità per il proprio cliente.
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