I giudici del merito avevano assolto i due imputati riconoscendo in loro favore la causa di giustificazione del “diritto di critica”, e sottolineando la sussistenza di un’azione mossa dalla “convinzione che quel sospetto fosse fondato”. La denuncia in “forma dubitativa” di “situazioni oscure” non è stata dunque considerata diffamazione bensì diritto di critica, proprio del giornalista d’inchiesta che non deve essere sottoposto a “censure a priori“. Nel servizio Iovene asseriva fuori campo: “Senza giri di parole si sospetta proprio della più grande raffineria italiana di Monopoli: abbiamo girato la domanda al presidente“. L’azienda, ritenendo l’affermazione un’ingiuria a suo discapito, si era celermente rivolta al tribunale di Brindisi, il quale tuttavia aveva ritenuto il fatto non “costituente reato”.
La corte d’Appello leccese ha poi confermato il giudizio in primo grado, rilevando come la trasmissione si fosse sempre mossa “nell’ambito del diritto di critica” ed avesse denunciato “situazioni oscure” rivolgendosi direttamente agli organi dello Stato deputati ai relativi chiarimenti, la magistratura e il legislatore. La motivazione della sentenza ha suscitato l’ulteriore dissenso, avanzato nel ricorso in Cassazione dai difensori dell’azienda, i quali hanno parlato di andare oltre “la questione circa l’ampiezza del dovere di controllo sulla verità della notizia”. “Escluso il caso in cui il sospetto sia obiettivamente del tutto assurdo” e “sempre che sussista anche il requisito dell’interesse pubblico all’oggetto dell’indagine giornalistica“, hanno chiarito i giudici della Cassazione, “l’operato dell’autore è destinato a ricevere una tutela primaria rispetto all’interesse dell’operatore economico su cui il sospetto è destinato eventualmente a ricadere” questo per “il risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista, costituito dal diritto della collettività ad essere informata non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla libertà, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto“.
Si legge nella sentenza della Suprema Corte, depositata ieri, che “pretendere la censura a priori del giornalismo esplicato mediante la denuncia di sospetti di illeciti, significherebbe degradare fino ad annullarlo il concetto stesso di sospetto e di giornalismo di inchiesta: dovendo piuttosto -ha terminato la Corte- il sospetto che non sia meramente congetturale o peggio ancora calunniatorio, mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero”. Il verdetto risulta pertanto di straordinaria importanza; il giornalismo d’inchiesta, così come tutelato dal principio costituzionale, costituisce un’espressione fondante del diritto stesso di libera manifestazione del pensiero, qualora manifesti motivatamente il sospetto di sussistenti illeciti, richiedenti sempre e comunque interventi normativi chiarificatori.
Leggi la sentenza 27 febbraio 2013 n. 9337 – Corte di cassazione – Sezione V penale
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