Riforma legge elettorale: un male necessario. Ma nessuno è innocente

La situazione di oggi frutto di continui errori e ritardi. Alla Camera regge l’asse Pd-Fi-Lega, ma si apre qualche crepa

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Sarà pur vero come ha detto Enrico Mentana, che “modificare la legge elettorale a sei mesi dalle elezioni fa abbastanza schifo”. Sicuramente non è il massimo e, anzi, è qualcosa che, in condizioni normali potrebbe far venire seri dubbi sulla solidità dell’impianto democratico.

Ma non dobbiamo dimenticarci che arriviamo da uno stallo istituzionale lungo cinque anni, che si è via via aggravato per effetto di tre cambi di governo e della duplice bocciatura della legge elettorale da parte della Consulta. Tutto ciò, ha portato allo scenario di oggi, in cui un governo tutt’altro che forte e “traghettatore” si trova tra le mani la patata bollente di una riforma non rinviabile, poiché sarebbe soltanto causa di ulteriore caos istituzionale nella prossima legislatura.

Non è infatti pensabile andare al voto con il sistema attuale, che già a pieno regime non garantiva né adeguata rappresentanza, né tantomeno la governabilità tanto invocata. Anzi, dal Porcellum in poi il sospetto è che si sia tentato di minare volutamente le maggioranze, in particolare al Senato, per effetto di un criterio di assegnazione contorto e dei premi di maggioranza regionali. Se a questo aggiungiamo che l’impianto generale della legge è stato cancellato dalla Corte costituzionale, ci rendiamo conto della fragilità con cui potremmo andare alle urne se non si mettesse mano alla legge con urgenza. Discorso simile alla Camera, dove l’Italicum è ormai un provvedimento anacronistico, che aveva legato i propri fini all’esito – infausto per il governo – del referendum dello scorso 4 dicembre.

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Come ne usciremo?

Insomma, ci troviamo un guazzabuglio senza precedenti, che minaccia di compromettere seriamente la tenuta del sistema per un altro lustro. Ciò non toglie, comunque, che il tentativo oggi messo in atto sia colpevolmente tardivo, con le alleanze ormai volte a sondare il terreno in vista delle urne.

La ragion di Stato può aver obbligato il governo a forzare i tempi, mettendo la questione di fiducia e andando così alla conta finale. Ma questo non deve in alcun modo costituire un alibi: l’incancrenirsi di questo scempio istituzionale è da imputare anche all’esecutivo in carica, che ha cercato di rimanere a galla rinviando a più riprese l’appuntamento con la riforma, a parte il tentativo di qualche mese fa andato a sbattere alla prima curva. E ora, si trova a dover gestire tutto ciò nel bel mezzo della legge di bilancio conclusiva del quinquennio.

Ora, escludendo sorprese sempre possibili, pare che a darci la nuova legge elettorale sia lo schieramento improvvisato tra Pd, Alleanza popolare, Forza Italia, Lega e verdiniani. All’esterno, rimangono M5S – che ieri ha portato più di mille persone in piazza a Montecitorio – qualche falco Pd, Mdp, Sinistra italiana, Ala e Fratelli d’Italia. Due fronti eterogenei – da una parte governo, Berlusconi e Salvini, dall’altra Bersani, Grillo e Meloni – che però aprono una crepa profonda, la quale promette di allargarsi già nelle prossime settimane, quando il testo del Rosatellum arriverà in Senato per il voto finale. Lì dove il sostegno a Gentiloni scricchiola, e dove capiremo definitivamente che la campagna elettorale è, di fatto, già iniziata.

Francesco Maltoni

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