Il software libero nelle pubbliche amministrazioni: l’eccezione che diventa la regola

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La storia del software libero, o open source, può essere letta in modi differenti: in chiave filosofica, come l’esperienza di un movimento volto a superare la proprietà privata nel mondo informatico, o in un’ottica pragmatica, come l’evolversi di una modalità di realizzazione del software basata sui benefici di un contributo collettivo.

Le due espressioni “software libero” e “open source”, riflettono questi due diversi approcci – etico la prima e pratico la seconda – che chiaramente non si escludono fra loro.

Comunque la si veda, però, la storia del free software appare come un “crescendo”, che l’ha portato ad essere, da realtà circoscritta ad una ristretta comunità hacker (nel “senso buono” del termine) trent’anni fa, a fenomeno “quasi di massa” oggi. Ciò è avvenuto passando ovviamente, nel 1991, per la compilazione di Linux, il primo vero sistema operativo “libero”, che proprio in virtù dell’essere open ha prodotto per gemmazione le sue diverse varianti, le “distribuzioni”, alcune delle quali, come Mint e Ubuntu (il riscatto africano nel mondo informatico), hanno raggiunto un grado di popolarità non trascurabile, portando, negli anni scorsi, i sistemi operativi della famiglia Linux a superare la soglia psicologica dell’1% del mercato, e a puntare ben oltre.

La progressiva diffusione di Linux e delle applicazioni open source ha originato, nel decennio scorso, il dibattito circa l’uso del software libero nelle pubbliche amministrazioni, fra pro e contro. E anche qui il percorso è stato quello di una lenta erosione della visione monolitica – tipica degli ultimi anni novanta – in base alla quale la norma assoluta era che gli enti pubblici usassero software proprietari su licenza d’uso, o facessero realizzare esse stesse degli applicativi, acquisendone quindi la proprietà.

Questo percorso ha avuto, pochi giorni fa, un passaggio fondamentale. Con una modifica dell’articolo 68 del Codice dell’amministrazione digitale, entrata in vigore il 12 agosto 2012, l’open source è diventato la regola per l’acquisizione di software nelle pubbliche amministrazioni, mentre l’acquisto del software proprietario con licenza d’uso è stata relegata ad eccezione praticabile solo in casi estremi.

Si tratta di una modifica del quadro normativo la cui portata appare decisamente pervasiva. Vediamo dunque come ci si è arrivati.

Nel 2003, il 19 dicembre, il software libero otteneva la sua prima legittimazione in ambito istituzionale, con una direttiva dell’allora Ministro Stanca che aveva, anzitutto, lo scopo di introdurre gli uffici all’esistenza stessa dell’open source come alternativa al software proprietario.

La direttiva, quindi, individuava le quattro opzioni per l’acquisizione del software in ambito pubblico che successivamente, come sappiamo, sono confluite nell’articolo 68 del Codice dell’amministrazione digitale. Esse sono: lo sviluppo di programmi informatici ad hoc, commissionati dalla stessa amministrazione; il riuso di programmi già sviluppati da altre amministrazioni; l’acquisto di software proprietari mediante licenza d’uso; l’acquisizione di programmi  open source.

Fra le quattro opzioni spiccava, oltre al software libero, la pratica del riuso di programmi commissionati da altre amministrazioni, strumento di forte razionalizzazione. C’è da dire però che essa riguarda tendenzialmente casi diversi rispetto all’acquisizione del software open source. La realizzazione di programmi ad hoc – e il riuso degli stessi – infatti si ha normalmente per il compimento di operazioni strettamente mirate all’ambito amministrativo (per esempio, alla gestione del protocollo informatico), mentre per i sistemi operativi e i software generalisti (per esempio le suite da ufficio) la scelta di fatto, è solo fra software commerciale e free software.

Il Codice dell’amministrazione digitale lasciava libertà di scelta fra le quattro opzioni, tuttavia il fatto stesso che le amministrazioni fossero tenute ad effettuare una valutazione comparativa, e quindi dovessero giustificare le ragioni dell’eventuale preferenza per un sistema proprietario in luogo di uno libero, costituiva comunque un importante elemento di novità.

Il 12 agosto scorso, dunque, come dicevamo, si è avuta una riscrittura della norma, ad opera del Decreto-Legge 22 giugno 2012, convertito dalla Legge 7 agosto 2012, n. 134, lo stesso che ha istituito l’Agenzia per l’Italia Digitale che va a sostituire DigitPa.

Il nuovo articolo 68 del Codice ha un tenore ben diverso dal testo precedente. Questa volta le possibili modalità di acquisizione del software sono solo tre: “a) software sviluppato per conto  della pubblica amministrazione; b) riutilizzo di software o parti di esso sviluppati per conto della pubblica amministrazione; c) software libero o a codice sorgente aperto”, oltre alla combinazione fra queste soluzioni.

Il software proprietario è definitivamente scomparso dal range delle possibili scelte. O meglio, rimane, nella prosecuzione del comma, ma come extrema ratio: “Solo quando la valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico dimostri l’impossibilità di accedere a  soluzioni open source o già sviluppate all’interno della pubblica amministrazione ad un prezzo inferiore, è  consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso”.

La lettera della norma è chiara: deve esserci “l’impossibilità” di ricorrere al software libero o a programmi commissionati ad hoc. E se è vero che possono aversi casi di applicazioni legate a specifiche attività istituzionali che non sono disponibili sotto forma di free software, e di cui non è economicamente conveniente commissionare la realizzazione, è altrettanto certo che in altre circostanze – in primis nel caso dei sistemi operativi e delle suite da ufficio – sembrerebbe non esserci “in radice” l’impossibilità di ricorrere all’open source. Sostenere infatti che è “impossibile”, dal lato tecnico ed economico, adoperare Ubuntu (o Mint, o Suse ecc.) al posto di Windows (o di Apple OSX), non appare semplice.

È vero che – come dispone ancora la norma – le amministrazioni dovranno effettuare le proprie valutazioni sulla base delle linee-guida stabilite dall’Agenzia per l’Italia Digitale, e che quindi occorrere attendere tali documenti, ma anche in questo caso, è difficile pensare a indicazioni che, alla luce di una disposizione legislativa così netta, conducano ad un passo indietro e indichino la preferenza di Windows in luogo di Linux, oppure di Microsoft Office in luogo di Libre Office. Potrebbero addursi i costi di formazione del personale, ma anche questa giustificazione appare debole, dal momento che l’interfaccia grafica e le modalità di funzionamento di Linux e delle sue applicazioni sono ormai analoghe agli standard dei più diffusi sistemi e applicativi proprietari. Paradossalmente, può rivelarsi meno intuitivo, per l’operatore, il passaggio da Windows 7 a Windows 8 (dall’interfaccia radicalmente mutata), che il passaggio da Windows 7 ad Ubuntu.

Certamente, anche con le norme precedenti le amministrazioni stavano già dando importanti segnali di interesse per l’open source (soprattutto con i programmi da ufficio), ma la norma appena entrata in vigore potrebbe essere realmente destinata a produrre quello “scatto” che, ad esattamente trent’anni dalla teorizzazione del Free software da parte di Richard Stallman, può portare l’open source a passare da eccezione a regola.

Daniele Marongiu

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