Maltrattamenti in famiglia, ovvero il sottile confine tra piacere e reato

Redazione 09/11/11
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Tu mi vuoi dolce e sensuale… mentre a me, piace fare il maiale… e allora frustami… legami forte al letto…”.

Coppie di tutto il mondo, d’ora in avanti, attenzione ai rapporti sadomaso: dal piacere al reato, il passo è breve.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (sentenza n. 39228 del 2011) specificando che in questo genere di rapporti la donna, anche se non è in un atteggiamento di remissione nei confronti del partner, e’ sempre “in una situazione di debolezza e fragilità” rispetto a lui.

Pertanto, per l’uomo, può configurarsi il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 codice penale.

La suprema Corte ha così confermato una condanna inflitta a un 60enne che aveva costretto sua moglie a “rapporti di tipo sadomasochista con molteplici inversioni di ruolo“. La donna aveva inizialmente accettato quel tipo di rapporti, ma poi aveva denunciato il marito, accusandolo di maltrattamenti continui, non condivisi e mai accettati dalla stessa.

Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello condannavano l’imputato, affermando che per non cadere nel reato di maltrattamento, il rapporto deve essere gradito da entrambi i partner.

L’uomo, proponendo ricorso in Cassazione, sosteneva che la moglie avesse sempre accettato quel tipo di rapporti e che, del resto non si potesse parlare di “sopraffazione” proprio perchè “il peculiare rapporto tra i coniugi descritto come sadomasochista” richiedeva molteplici inversioni di ruolo e per questo incompatibile con l’accusa di continue e sistematiche vessazioni unilaterali.

La sesta sezione penale della Corte ha però respinto il ricorso, confermando la corretta ricostruzione della vicenda e le decisioni dei giudici di merito ed evidenziando che “la Corte d’Appello ha dato puntuale conto della peculiarità del rapporto tra moglie e marito” analizzando “gli aspetti definiti di sadomasochismo, spiegando perché quella peculiarità non era incompatibile con le condotte ascritte all’uomo e perché il carattere anche non remissivo della donna non evitasse una sua situazione di debolezza e fragilità nei confronti del marito“.

I giudici di merito, conclude la Corte, hanno ben chiarito come ci fossero prove della «obiettiva violenza» protrattasi nel tempo da parte del marito nei confronti della donna, e come egli avesse tenuto “un atteggiamento mentale di vero e proprio disprezzo nei confronti della moglie durante tutta la convivenza“.

Tanto è bastato, per gli Ermellini, a giustificare la condanna.

Il testo integrale della sentenza

Redazione

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