Dal principio l’aumento delle tasse universitarie doveva essere affare esclusivo degli studenti fuori corso, che sono il 40% della popolazione studentesca, e doveva fungere anche da dissuasore ed incentivo a terminare gli studi in tempo, ora, però, pare che nemmeno questo basti e rischia anche chi è uno studente modello ed è in pari con gli esami. Del resto non era un provvedimento fondato esclusivamente sulla meritocrazia quanto sul fare cassa, cassa comune visto che è una doppia manovra per recuperare liquidità da parte dello Stato ma anche degli Atenei che, versando in condizioni economiche paurose, vedono ridursi la percentuale degli studenti contribuenti, perché verrebbero esclusi quelli fuori corso appunto, e riuscirebbero così ad aumentare il gettito delle tasse che deve essere uguale e non superiore al 20% della cifra di finanziamento destinata all’ateneo stesso.
Questa scelta, che è ampiamente condivisa dai quadri dirigenti universitari, come ci spiega il rettore del Politecnico di Milano, il professor Giovanni Azzone, è “un modo per ripartire in modo più equo il costo della formazione universitaria tra i diversi ceti”. Dello stesso avviso, tuttavia, non sono i sindacati, se si mantiene cauto Aldo Tropea, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Andis, sostiene che “lo Stato deve fare la sua parte nella definizione e nel controllo degli ordinamenti, nel garantire equità delle risorse, e assunzione dei migliori, ma deve poi essere l’intera società civile a farsi carico dello sviluppo culturale e scientifico”.
Dunque va bene la spending review ma deve essere più mirata, decisamente più accesa la posizione del segretario nazionale di Flc – Cgil, Domenico Pantaleo, secondo cui “nella spending review è previsto che il tetto del 20% sulle tasse universitarie venga calcolato solo sugli studenti in corso e su tutte le risorse che lo stato trasferisce agli atenei. Voglio ricordare che gli studenti fuori corso sono circa il 40%, quindi, restringendo il numero degli studenti e allargando la quantità di risorse trasferite agli atenei su cui si calcola il 20%, il risultato sarà la triplicazione delle tasse universitarie”. Prosegue, inoltre, il segretario “la conseguenza sarà probabilmente un ulteriore calo delle iscrizioni e una fuga verso le università private perché il blocco del reclutamento anche negli atenei farà sparire tantissimi corsi di laurea senza una programmazione basata su scelte qualitative”.
Il nodo da sciogliere sono i parametri con cui sono stati selezionati i redditi su cui incidere con il rincaro delle tasse universitarie perché in definitiva il raddoppio delle tasse per chi è fuori corso è poco più di un manifesto di intenti in quanto viene applicato solo a chi ha un reddito familiare superiore ai 150.000 euro e, per quanto assurdo possa sembrare, in Italia sono solo 30.000 le famiglie a dichiarare un reddito del genere. Partendo da questo dato, sorprendente, e che fotografa ancora una volta la crisi del bel paese, è stata una conseguenza logica voler intaccare anche il reddito delle famiglie degli studenti ancora in tempo con il loro corso di studi.
“Per chi è nato in una famiglia abbiente – dice Giuseppe Valditerra, senatore di Fli e professore universitario – il livello delle tasse è effettivamente basso. Su tutti gli altri invece bisogna fare un discorso diverso e più prudente”. In virtù di questo la spending review pare che preveda un percorso progressivo: fino al 2016, chi appartiene ad una famiglia che resta sotto il parametro dei 40.000 euro, sarà in definitiva al riparo dal rincaro. Quel che succederà dopo non è dato saperlo, e, con ogni probabilità, a quel punto saranno le singole università a decidere sulle proprie tasse universitarie, con buona pace di tribunali e possibili ricorsi.
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