Referendum costituzionale: deliberazione dello stato di guerra nella riforma

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Ha suscitato più che un certo clamore la “sparata” – pare proprio il caso di dirlo – del segretario Nato Jens Stoltenberg, il quale, nei giorni scorsi in visita a Roma, ha rivelato come, entro il 2018, un contingente di militari italiani verrà schierato al confine tra Lettonia e Russia.

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Alle parole del massimo rappresentante dell’alleanza atlantica, il governo italiano ha reagito con un certo imbarazzo, con i ministri della Difesa Pinotti e degli Esteri Gentiloni che hanno provato in tutta fretta a correre ai ripari. “Si tratta di una decisione già presa nel corso dell’ultimo vertice di Varsavia – hanno specificato i due esponenti dell’esecutivo – non è politica di aggressione ma di rassicurazione e difesa”.

L’operazione partirà già nel corso del 2017 e vedrà una forza militare complessiva di circa 4mila uomini dei Paesi aderenti alla Nato, per un totale di quattro differenti battaglioni che andranno a insediarsi nei Paesi baltici. E non è tutto: i soldati italiani faranno parte della “punta di lancia”, ossia il Vjtf – “Very High Readiness Joint Task Force” – la cosiddetta task force di intervento immediato in caso di emergenza, ovviamente sempre in chiave anti russa.

L’intera regia è dovuta all’irrigidimento dei rapporti tra Mosca e gli Stati Uniti, a cominciare dalle note divergenze sulla Siria e, quindi, sulle reciproche accuse di cyberattacchi, potenziali o già accaduti – come lo scandalo mail su Hillary Clinton – tra le due superpotenze. Si alza, insomma, un forte vento di guerra fredda, con i Paesi alleati chiamati a fare la loro parte e, tra questi, anche l’Italia.

Cosa accadrà con il referendum

Nell’arco di due anni, insomma, non saremo impegnati solo in Kosovo o in Afghanistan, come avviene già ora, ma anche al delicatissimo confine russo. Quale sarà l’escalation di queste tensioni tra Russia e Occidente, al momento è materia da chiaroveggenti.

Però, con certezza, possiamo sapere cosa dirà la Costituzione, qualora la situazione internazionale dovesse precipitare. Tenendo fermo il punto dell’articolo 11, il 4 dicembre saremo chiamati a esprimerci, tra le altre cose, anche sulla deliberazione dello stato di guerra, che subirà alcune modifiche di non poco conto.

Come noto, l’impianto generale della riforma prevede un Senato non più elettivo, che vedrà la sua platea ridursi a circa un terzo. Ma, insieme a queste novità, assai dibattute su web e televisioni, ci sono altri, cruciali connotati di palazzo Madama che andranno a modificarsi: ad esempio, le materie di cui l’aula sarà esautorata. E una di queste, sarà proprio la deliberazione dello stato di guerra.

Recita, infatti, il nuovo art. 78 che entrerà in Costituzione dovesse vincere il Sì: “La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari”.

Due sono le differenze rispetto al testo in vigore dal 1948: da una parte, la necessità della maggioranza assoluta – mentre nella Carta attuale non è specificata – e dall’altra, con ogni evidenza, svanisce del tutto il ruolo del Senato, fondamentale, invece, nel sistema voluto dai Padri costituenti.

In base a quanto prevede l’Italicum, la nuova legge elettorale già in vigore per la Camera, la maggioranza assoluta dei seggi (340 su 630) viene assegnata al partito vincente al ballottaggio tra le due liste più votate, se nessuna, al primo turno, arriva al 40%. Ne deriva che un soggetto con il 25% – o meno – possa ottenere la maggioranza assoluta a Montecitorio e, di riflesso, deliberare in completa autonomia lo stato di guerra, affidando al governo – sua diretta espressione – tutti i poteri collegati.

Nei mesi di dibattito parlamentare, era stato presentato un emendamento, primo firmatario il deputato Pd Carlo Galli, per aggiustare la soglia per la deliberazione dello stato di guerra al 66% degli aventi diritto. Dunque, si cercava di alzare l’asticella rispetto a quanto indicato dal testo Renzi-Boschi, mettendo una materia così delicata in soglia di sicurezza rispetto al premio di maggioranza dell’Italicum. La proposta, però, è stata bocciata.

Ora, dunque, una decisione di capitale importanza per i destini di una nazione potrebbe essere presa non già da una Camera, non da una coalizione, ma da un singolo partito. Basterà infatti il voto di 316 deputati (50%+1) e si potranno mettere nelle mani del governo, e dunque del premier, poteri molto ampi. Quanto ampi? La vera estensione non ci è ancora nota poiché, per fortuna, fino a oggi questo articolo non è mai stato applicato. Ma domani?

Francesco Maltoni

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