Quali effetti per i registri “comunali” sulle D.A.T.?

Sereno Scolaro 30/09/12
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Per molto tempo, l’istituto del referendum popolare è rimasto pressoché inutilizzato. Poi lentamente ha preso l’avvio, fino a giungere, negli anni ’80 ad un uso intensivo, arrivando a consultazioni referendarie che vedevano numerosi quesiti  (anche 7 schede), sui tempi più disparati, anche di scarso (salvo che per i promotori) impatto sulla vita quotidiana, tanto da disorientare l’elettorato che ha progressivamente ridotto la propria partecipazione, al punto che numerosi referendum popolari non hanno raggiunto il quorum di validità. E, in alcune occasioni, l’affluenza alle urne è stata tanto inferiore al quorum da motivare lo stop allo scrutinio delle schede votate. In quelle fasi, vi era chi affermava come il referendum popolare, strumento del tutto importante, dovesse avere ad oggetto materie sui cui potesse “dividersi”, portare a discussioni, anche vivaci, tra le diverse posizioni, cioè riguardare temi “alti”, tali da coinvolgere il maggior numero di persone. Ne sono stati esempi i referendum popolari sulla L. 1° dicembre 1970, n. 898 (cause e modalità per lo scioglimento del matrimonio), oppure quello sulla L. 22 maggio 1978, n. 194 (interruzione volontaria della gravidanza) , in quanto si trattava di tematiche che, più o meno, erano d’interesse generale e diffuso, ma – soprattutto – tali da coinvolgere convincimenti, anche ideali ed etici, di un certo spessore, cioè su cui siano in gioco “valori”.

Per altro, i referendum popolari, in quanto abrogativi, si collocano “a valle” dell’adozione di una qualche legge che regoli una materia, ma non si prestano quando si tratti di promuovere nuovi “valori”, in funzione di conseguire una qualche nuova legislazione. Anche se pochi lo ricordino, si pensi al movimento e alle azioni che hanno portato alla L. 8/3/1975, n. 39 (fissazione della maggiore età a 18 anni), anche se questa sia stata meno carica di “valori” rispetto agli altri 2 esempi.

Quando si tratti di promuovere una nuova regolazione di una materia, specie quando si tratti di quelli che, da più parti, sono definiti quali diritti di cittadinanza, spesso si fa ricorso ad “espedienti” (dando a questo termine significato positivo), in modo da sollecitare l’attenzione pubblica, coinvolgerla, portarla a considerare il pro ed il contro, a “schierarsi”, generando un movimento nella direzione attesa, che provoca, se il tema sia abbastanza carico di valori e di coinvolgimento generale, comprensibili reazioni da parte di chi abbia altre “visioni”, anche se può rimanere una platea, più o meno ampia, di indecisione.

In questo contesto, vanno collocate iniziative, promosse da Comitati vari, attorno alla “visione” di quello che può essere l’istituto del matrimonio (non potendosi dimenticare come il matrimonio non sia un istituto, ma, storicamente, rappresenti una pluralità di istituti e che una data forma sia, spesso, semplicemente quella storicamente e geograficamente formatasi in una data società, ), che coinvolge la “visione” della famiglia, oppure , ancora, il tema del c.d. “testamento biologico” (da alcuni chiamato anche D.A.T., disposizioni anticipate di trattamento), che coinvolge aspetti del tutto personali, rispetto al trattamento cui una persona possa essere sottoposta, quando anche non sia nelle condizioni di operare una scelta.

Ciò sposta la questione ad un tema ancora più rilevante, quello di quale sia lo spazio per una scelta personale, individuale. O, in altre parole, circa quali siano – se vi siano – i limiti alla libertà di scelta individuale, cioè se essa sia, in qualche modo, del tutto assoluta, oppure se possano esservi limitazioni. Il tema è “pesante”, nel senso che non si può disconoscere come vi siano posizioni che elevano la libertà di scelta a “valore” personale, individuale (o, individualistico?), non assoggettabile a limitazioni “esterne” , neppure da parte del legislatore, fino alle opposte posizioni di quanti abbiano “visioni” per cui la persona umana non abbia una piena disponibilità di scelta individuale, essendo confini sottratti ad ogni scelta individuale, posti dall’esterno (non si sa bene da chi …), che sarebbero invalicabili. Come sempre, le posizioni estreme sono insoddisfacenti, poiché, secondo il risalente adagio, in medio stat virtus.

Vertendosi su trattamenti sanitari, il richiamo immediato non può che essere se non quello all’art. 32, comma 2 Cost., per cui un qualche trattamento sanitario non può essere obbligatorio, se non per disposizione di legge (con ciò determinando una riserva di legge), ma – soprattutto – avendosi anche una pre-limitazione alla legge la quale non può essere tale da violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Non è a caso che, quando, in Parlamento, si discuteva di un disegno di legge in proposito (contingentemente, allora, collegato alla vicenda “Englaro”, la stessa per cui l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri aveva affermato, intervistato dai mass media dopo l’ultima pronuncia giurisprudenziale sul caso, che avrebbe fatto approvare dal Parlamento una legge ad hoc in 2 giorni …, non essendo stato Montesquieu tra le letture giovanili), fosse stata seguita la linea di qualificare l’alimentazione ausiliata quale fattispecie diversa da un trattamento sanitario, al fine di sottrarre il testo di legge dalla previsione dell’art. 32, comma 2 Cost., almeno per il suo primo periodo (il secondo periodo, sul rispetto della persona umana non era poi ritenuto così importante …).

Volendo, potrebbe ricordarsi anche l’antecedente (cronologicamente, non per la gerarchia delle fonti del diritto) art. 5 C.C. che già vietava, dal 1° gennaio 1940, gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionassero una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando fossero altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Trascurando questi ultimi due (limiti di ordine pubblico e di buon costume, allora considerati dall0’art. 31 Preleggi, residuando oggi solo il primo, per l’art. 16 L. 31 maggio 1995, n. 218), anche qui vi è un rinvio alla legge.

Il diffondersi delle iniziative volte a far sì che, in difetto di norma di legge, siano i comuni ad intervenire in materia, attraverso l’istituzione di “registri” od altre forme di “strumenti”, comunque denominati, destinati ad accogliere le D.A.T. (da ultimo, sembra che su questa via si stia incamminando il comune di Milano, per altro in presenza di altri precedenti qui o là avutisi) fa sorgere la questione degli effetti di tali “strumenti”, rispetto a cui, a prescindere dalla condivisibilità o meno della finalità, non può che far richiamare la riserva di legge risultante dall’art. 32, comma 2 Cost., ma anche dall’art. 117, comma 2, lett. l) e, per certi versi, anche lett. m) Cost., per cui in materia non solo non può provvedersi che per legge, ma altresì per legge dello Stato, essendosi in presenza di una competenza legislativa, esclusiva, dello Stato.

Infatti, l’eventuale iscrizione in “registri comunali” (comunque denominati) di una determinata volontà in materia di D.A.T., farebbe sorgere il problema circa la sua reale natura giuridica. Alcuni sostengono che  tale “iscrizione” possa essere assimilata all’istituto testamentario; ipotesi da scartare, considerando l’inidoneità della forma (art. 601 C.C.), così come l’insostenibilità che vi sia, da parte del comune, una sorta di “conservazione” di questo “testamento”, in quanto attività propria dei notai (art. 61 L. 13 febbraio 19013, n. 89 e succ. modif.). Ogni ipotesi di qualificazione di una tale “scelta personale” quale testamento cade di fronte alla natura del testamento come atto di disposizione per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere (art. 587 C.C.) dal momento che le D.AT. non attengono, per definizione, alla fase post mortem, quanto, semmai, alle fasi di c.d. fine vita, cioè a fasi èper definizione (ripetizione intenzionale) antecedenti al decesso.

Ne consegue che queste iniziative, sono destinate a non produrre, per le persone che se ne avvalgano, effetti giuridici di sorta, ma si collochino in un contesto del tutto diverso rispetto agli effetti giuridici, quello della “promozione” (nel senso migliore del termine) di un orientamento, volto a promuovere una modifica legislativa, attraverso l’attivazione di processi che portino ad evidenziare al “legislatore” la domanda della popolazione che la materia venga regolata. E qui “promuovendo” quel rispetto della persona umana che l’art. 32, comma 2, secondo periodo, Cost., afferma, oltretutto come limite (o, forse, finalità) della legge cui rinvia il primo periodo.

Sarebbe il caso di leggere: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, in altri termini, cioè passando da una formula in negativo ad una in positivo, ad esempio, con il significato di: “La legge assicura (e garantisce) il rispetto della persona umana..”

Sereno Scolaro

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