Presupposizione e clausola di buona fede

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Il caso concreto è piuttosto semplice.

Tizio acquista da Caio un terreno situato nella zona periferica di una grande città. I due contraenti, dopo una breve trattativa, pervengono all’accordo senza fare riferimento espresso al requisito-presupposto dell’edificabilità, ma convengono unicamente sul prezzo del terreno in vendita. L’elemento essenziale ed espresso, che contraddistingue tale accordo, è costituito, quindi, dall’ammontare del prezzo, determinato in base al comune ed implicito riferimento al prezzo medio delle aree edificabili della zona. Tuttavia Tizio, acquirente motivato, apprende che il Comune ha approntato una modifica al P.R.G.C. in forza della quale l’area è divenuta inedificabile!

Ebbene, è qui che la questione si complica.

Come noto, la presupposizione risulta essere la più importante delle tipologie di sopravvenienze di creazione dottrinale e giurisprudenziale (da qui l’atipicità di tale istituto). In termini tecnici, la presupposizione può essere definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto, passata, presente o futura, che, seppure non dedotta nella manifestazione negoziale, è tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto comune, avente valore determinante nella “conclusione del contratto” e ai fini della “conservazione del vincolo” (cd. condizione implicita o inespressa, Cass. Civ. nr. 6631 del 2006 ). Il venir meno di tale condizione o il verificarsi della medesima è del tutto indipendente dalla attività e volontà dei contraenti e non corrisponde, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione dell’uno o dell’altro (Cass., Sezione II, sentenza 30 aprile 2012, nr. 6612).

Gli elementi che formano la struttura della presupposizione sono, indispensabilmente, tre:

1) in primis, la presupposizione deve essere comune a tutti i contraenti;

2) l’evento supposto deve essere stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti;

3) il presupposto deve avere i caratteri della obiettività.

La presupposizione, così intesa, assume rilevanza giuridica. Una certa dottrina, attualmente tra quelle maggioritarie, ha individuato, per l’appunto, un sostrato giuridico “oggettivo” della presupposizione nella clausola di buona fede. La struttura portante della presupposizione viene, dunque, ricercata negli artt. 1362 e 1366 c.c., ossia nelle norme relative all’esegesi contrattuale che va effettuata indagando la comune intenzione delle parti e tenendo conto del canone generale di buona fede. I sostenitori di questa tesi indicano, qualora la situazione presupposta non si concretizzi a causa di eventi sopraggiunti, tre possibili rimedi: la modifica delle prestazioni in fase esecutiva, la rinegoziazione del contratto, l’inefficacia del contratto ( a seconda delle circostanze oggettive del caso reale presenti nel momento in cui sono state espresse le dichiarazioni delle parti).

Con la sentenza nr. 12235 del 25 maggio del 2007, la Suprema Corte di Cassazione ha accolto un orientamento innovativo in materia di presupposizione. Tale orientamento identifica la presupposizione come mera circostanza esterna al contratto, che, seppure non specificatamente dedotta come condizione, ne costituisce specifico, oggettivo presupposto di efficacia, in base al significato proprio del medesimo, determinato alla stregua dei criteri legali di interpretazione.

A dire della Corte, nella presupposizione confluiscono circostanze e fatti, che pur non attenendo né alla causa né al contenuto della prestazione (definiti “risultati dovuti“) assumono per entrambe le parti (o anche per una sola di esse con riconoscimento da parte dell’altra) un valore determinante per il mero mantenimento del vincolo contrattuale. Muovendo da tali premesse, la Corte giunge ad affermare che il difetto di tali presupposti legittima i contraenti all’esercizio del diritto di recesso (“nel caso di specie, Tizio sarebbe legittimato a recedere dal vincolo negoziale in virtù proprio della presupposizione e, quindi, dell’inedificabilità sopraggiunta!“).

Insomma, tale orientamento andrebbe ad escludere l’esperibilità dei rimedi risolutori tipici; quest’ultimi strettamente correlati al verificarsi di vicende inerenti le prestazioni contrattuali (inadempimento, impossibilità sopravvenuta o eccessiva onerosità). Il “principio di buona fede interpretativo-esecutiva“, ex art. 1375 c.c., in tal senso, imporrebbe a ciascuna parte, nell’esecuzione del contratto, di adoperarsi attivamente per consentire alla controparte la realizzazione del proprio interesse. Ma ancora più specificatamente, tale principio permetterebbe di interpretare la prestazione, originariamente dovuta, inesigibile, perché contrario a buona fede il comportamento della parte che ne pretenda l’esecuzione alle condizioni originarie, nonostante sia consapevole che la ragione concreta del negozio è venuta meno per effetto della sopravvenienza.

Ci si domanda: “è possibile inserire, con certezza, l’istituto atipico della presupposizione all’interno della tipica, aperta clausola di buona fede?”.

In tale caso, il principio di buona fede si rivelerebbe, ancora una volta!, un rimedio di garanzia, certezza e concretezza all’interno delle dinamiche contrattuali ma soprattutto all’interno dell’ordinamento…

Tiziano Solignani

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