La Consulta contro il pacchetto sicurezza: matrimonio anche senza permesso di soggiorno

Redazione 28/07/11
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Dopo la Corte di Giustizia dello scorso 28 aprile scorso, altro stop autorevole al pacchetto sicurezza del Governo.

Con sentenza depositata il 25 luglio, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 116 del codice civile, come modificato dall’art. 1, c. 15°, della legge 15/07/2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui richiede, per la celebrazione della validità del matrimonio, “un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano”.

Il caso. Una cittadina italiana ed un cittadino marocchino, il 27 luglio 2009, avevano chiesto all’ufficiale dello stato civile di procedere alla pubblicazione della celebrazione del matrimonio, producendo la documentazione prevista dalla allora vigente formulazione dell’art. 116 cod. civ.

Il successivo 28 agosto, quindi, gli stessi avevano chiesto che il matrimonio venisse celebrato.

Il 31 agosto 2009, l’ufficiale dello stato civile aveva motivato il diniego alla celebrazione del matrimonio per la mancanza di un «documento attestante la regolarità del permesso di soggiorno del cittadino marocchino», così come previsto dall’art. 116 cod. civ., come novellato dalla legge n. 94 del 2009, nel frattempo entrata in vigore.

Il Tribunale di Catania, adito con ricorso avverso il diniego, ha sollevato la questione di costituzionalità, ritenendo che sia necessario “sottrarre la libertà matrimoniale ad inammissibili condizionamenti”, in quanto “la libertà di contrarre matrimonio costituisce un diritto fondamentale della persona riconosciuto anche dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 16), dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 9)”.

In particolare, “la CEDU – includendo la libertà matrimoniale tra quelle che devono essere assicurate senza distinzione di sorta (di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza ad una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione) e pur prevedendo che il relativo diritto debba esser esercitato nell’ambito delle leggi nazionali – non consentirebbe che queste ultime possano porre condizioni o restrizioni irragionevoli”.

Dinanzi alla Corte Costituzionale, il Governo ha spiegato che il nuovo requisito della regolarità del soggiorno, richiesto ai fini della celebrazione del matrimonio, “tende a soddisfare l’esigenza del legislatore di garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori”.

In particolare, il legislatore, nella propria discrezionalità, avrebbe considerato lo status di “clandestino”» come “una situazione giuridica soggettiva valutabile negativamente in punto di ordine pubblico e sicurezza e, pertanto, sufficiente a giustificare la limitazione del diritto a contrarre matrimonio”.

E ancora, “Le prerogative dello Stato volte a tutelare la sovranità dei confini territoriali ed a controllare i flussi migratori, anche per evitare matrimoni di comodo, sarebbero prevalenti e legittimerebbero la scelta legislativa di limitare il diritto a contrarre matrimonio delle persone che non risultino in regola con le norme che disciplinano l’ingresso ed il soggiorno nel territorio nazionale”.

La “clandestinità”, dunque, è qualificata “situazione ostativa al matrimonio, in ragione di esigenze di ordine pubblico, di difesa dei confini e di controllo del flusso migratorio”.

La Consulta (redattore il presidente Quaranta) ha ritenuto fondata la questione, così motivando:

“(…) 3.1.— Giova ricordare come questa Corte (sentenze n. 61 del 2011, n. 187 del 2010 e n. 306 del 2008) abbia affermato che al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l’ingresso e la permanenza di stranieri extracomunitari in Italia.

Tali norme, però, devono costituire pur sempre il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra i diversi interessi, di rango costituzionale, implicati dalle scelte legislative in materia di disciplina dell’immigrazione, specialmente quando esse siano suscettibili di incidere sul godimento di diritti fondamentali, tra i quali certamente rientra quello «di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e nell’articolo 12 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (sentenza n. 445 del 2002).

In altri termini, è certamente vero che la «basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero» – «consistente nella circostanza che, mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo» – può «giustificare un loro diverso trattamento» nel godimento di certi diritti (sentenza n. 104 del 1969), in particolare consentendo l’assoggettamento dello straniero «a discipline legislative e amministrative» ad hoc, l’individuazione delle quali resta «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici» (sentenza n. 62 del 1994), quali quelli concernenti «la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione» (citata sentenza n. 62 del 1994).

Tuttavia, resta pur sempre fermo – come questa Corte ha di recente nuovamente precisato – che i diritti inviolabili, di cui all’art. 2 Cost., spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani», di talché la «condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (sentenza n. 249 del 2010).

Sebbene, quindi, la ratio della disposizione censurata – proprio alla luce della ricostruzione che ne ha evidenziato il collegamento con le nuove norme sull’acquisto della cittadinanza e, dunque, la loro comune finalizzazione al contrasto dei cosiddetti “matrimoni di comodo” – possa essere effettivamente rinvenuta, come osserva l’Avvocatura dello Stato, nella necessità di «garantire il presidio e la tutela delle frontiere ed il controllo dei flussi migratori», deve osservarsi come non proporzionato a tale obiettivo si presenti il sacrificio imposto – dal novellato testo dell’art. 116, primo comma, cod. civ. – alla libertà di contrarre matrimonio non solo degli stranieri ma, in definitiva, anche dei cittadini italiani che intendano coniugarsi con i primi.

È, infatti, evidente che la limitazione al diritto dello straniero a contrarre matrimonio nel nostro Paese si traduce anche in una compressione del corrispondente diritto del cittadino o della cittadina italiana che tale diritto intende esercitare. Ciò comporta che il bilanciamento tra i vari interessi di rilievo costituzionale coinvolti deve necessariamente tenere anche conto della posizione giuridica di chi intende, del tutto legittimamente, contrarre matrimonio con lo straniero.

Si impone, pertanto, la conclusione secondo cui la previsione di una generale preclusione alla celebrazione delle nozze, allorché uno dei nubendi risulti uno straniero non regolarmente presente nel territorio dello Stato, rappresenta uno strumento non idoneo ad assicurare un ragionevole e proporzionato bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella presente ipotesi, specie ove si consideri che il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) già disciplina alcuni istituti volti a contrastare i cosiddetti “matrimoni di comodo”.

Ed infatti, in particolare, l’art. 30, comma 1-bis, del citato d.lgs. n. 286 del 1998 prevede:

con riguardo agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato con cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea, ovvero con cittadini stranieri regolarmente soggiornanti, che il permesso di soggiorno «è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l’effettiva convivenza salvo che dal matrimonio sia nata prole»;

con riguardo allo straniero che ha fatto ingresso in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento familiare, ovvero con visto di ingresso al seguito del proprio familiare nei casi previsti dall’articolo 29, del medesimo d.lgs., ovvero con visto di ingresso per ricongiungimento al figlio minore, che la richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno «è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l’adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all’interessato di soggiornare nel territorio dello Stato».

3.2.— Del pari, è ravvisabile, nella specie, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

In proposito, si deve notare che la Corte europea dei diritti dell’uomo è recentemente intervenuta sulla normativa del Regno Unito in tema di capacità matrimoniale degli stranieri (sentenza 14 dicembre 2010, O’Donoghue and Others v. The United Kingdom).

In particolare, la Corte europea ha affermato che il margine di apprezzamento riservato agli Stati non può estendersi fino al punto di introdurre una limitazione generale, automatica e indiscriminata, ad un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione (par. 89 della sentenza). Secondo i giudici di Strasburgo, pertanto, la previsione di un divieto generale, senza che sia prevista alcuna indagine riguardo alla genuinità del matrimonio, è lesiva del diritto di cui all’art. 12 della Convenzione.

Detta evenienza ricorre anche nel caso previsto dalla norma ora censurata, giacché il legislatore – lungi dal rendere più agevole le condizioni per l’accertamento del carattere eventualmente “di comodo” del matrimonio di un cittadino con uno straniero – ha dato vita, appunto, ad una generale preclusione a contrarre matrimonio a carico di stranieri extracomunitari non regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato (…)”

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