La class action pubblica funziona

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A quasi un anno di distanza dall’entrata in vigore del D. Lgs. n. 198/2009 il T.A.R. del Lazio, con la sentenza n. 552/2011 ha accolto la prima class action contro la Pubblica Amministrazione; questa pronuncia potrebbe dare nuova linfa ad uno strumento che era stato bollato, forse troppo presto, come inutile.

 

 

Contrordine! La class action pubblica, introdotta dal D. Lgs. 20 dicembre 2009 n. 198 funziona: dopo le tante critiche che hanno accompagnato l’istituto fin dalla sua introduzione bollandolo come sostanzialmente inutile e a distanza di quasi un anno dall’entrata in vigore del sopracitato decreto, è arrivata la prima pronuncia giudiziale di condanna delle Amministrazioni.

Il T.A.R. Lazio-Roma, Sez. III bis, con sentenza n. 552 del 20 gennaio 2011, ha accolto il ricorso proposto dal Codacons, condannando i Ministeri dell’Istruzione e dell’Economia ad emanare – nel termine di quattro mesi – il piano generale di edilizia scolastica. L’importanza della pronuncia risiede non solo nella statuizione relativa al merito con cui il Giudice Amministrativo ha sanzionato l’inerzia delle Amministrazioni interessate, ma forse – soprattutto – nella statuizione relativa all’ammissibilità dell’azione e alla proponibilità del rimedio previsto dal D. Lgs. n. 198/2009; si tratta di una decisione ancor più interessante se solo si pensa che si tratta del primo (e finora unico) precedente e, probabilmente, rivitalizzerà un istituto che – finora – ha ricevuto più critiche che giudizi positivi.

 

Il D. Lgs. n. 198/2009 e la class action pubblica

Come noto, la class action (o azione collettiva) è una particolare azione legale che può essere intrapresa da uno o più soggetti – membri di una categoria di cittadini, consumatori o utenti – con l’obiettivo di risolvere una questione di rilevanza comune ottenendo una pronuncia efficace anche per tutti gli altri soggetti che si trovino nella stessa posizione giuridica.

Tale tipo di azione, tradizionalmente affermatasi negli ordinamenti di common law, è stata solo recentemente introdotta nel nostro Paese con l’art. 140-bis del Codice del Consumo (D. Lgs. n. 206/2005); tale norma, tuttavia, prevedeva l’esperibilità dell’azione collettiva solo nei confronti di soggetti privati e non anche delle Pubbliche Amministrazioni.

A tale lacuna ha posto rimedio la legge 4 marzo 2009, n. 15 (c.d. “Legge Brunetta”) che, nel conferire al Governo una delega finalizzata “all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni” ha delineato i principi e i criteri per la definizione di una class action da proporsi contro le Amministrazioni e i concessionari di servizi pubblici che ledano “interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti o consumatori (art. 4, comma 2, lett. l); tali principi erano:

1) consentire la proposizione dell’azione anche ad associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati;

2) devolvere il giudizio alla giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo;

3) prevedere come condizione di ammissibilità che il ricorso sia preceduto da una diffida all’amministrazione o al concessionario ad assumere, entro un termine fissato dai decreti legislativi, le iniziative utili alla soddisfazione degli interessati; in particolare, prevedere che, a seguito della diffida, si instauri un procedimento volto a responsabilizzare progressivamente il dirigente competente e, in relazione alla tipologia degli enti, l’organo di indirizzo, l’organo esecutivo o l’organo di vertice, a che le misure idonee siano assunte nel termine predetto;

4) prevedere che, all’esito del giudizio, il giudice ordini all’Amministrazione o al concessionario di porre in essere le misure idonee a porre rimedio alle violazioni, alle omissioni o ai mancati adempimenti di cui all’alinea della presente lettera e, nei casi di perdurante inadempimento, disponga la nomina di un commissario, con esclusione del risarcimento del danno, per il quale resta ferma la disciplina vigente;

5) prevedere che la sentenza definitiva comporti l’obbligo di attivare le procedure relative all’accertamento di eventuali responsabilità disciplinari o dirigenziali;

6) prevedere forme di idonea pubblicità del procedimento giurisdizionale e della sua conclusione;

7) prevedere strumenti e procedure idonei ad evitare che l’azione in questione nei confronti dei concessionari di servizi pubblici possa essere proposta o proseguita nel caso in cui un’autorità indipendente o comunque un organismo con funzioni di vigilanza e controllo nel relativo settore abbia avviato sul medesimo oggetto il procedimento di propria competenza.

 

Il Governo ha provveduto a dare esecuzione alla delega approvando il decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198, che fornisce a cittadini e utenti uno strumento di tutela aggiuntivo rispetto a quelli previsti dal Codice del processo amministrativo (D. Lgs. n. 104/2010), azionabile da singoli “titolari di interessi giuridicamente rilevanti od omogenei per una pluralità di utenti e consumatori” o anche “da associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati” (art. 1).

 

L’oggetto della tutela, innovativamente riconosciuta nei confronti di PA e concessionari di pubblici servizi, sono gli interessi – facenti capo alla pluralità di individui sopra descritta – che si assumono lesi:

a) dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento;

b) dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi;

c) dalla violazione di standard qualitativi ed economici;

d) dall’omesso esercizio di poteri di vigilanza di controllo o sanzionatori.

 

La ratio dell’introduzione dell’azione di classe nei confronti della PA sembra evidente: garantire il corretto svolgimento della funzione amministrativa o la corretta erogazione dei servizi attraverso un vero e proprio “controllo diffuso” sull’adozione da parte degli Enti di tutti gli atti che consentano all’Amministrazione di dare piena attuazione ai principi di efficienza, efficacia ed economicità.

Di conseguenza, non possono esservi dubbi sul fatto che la class action contro la PA si differenzi in modo sostanziale da quella prevista dal Codice del Consumo; infatti, con la prima si ristabiliscono gli standard di efficienza e produttività deviati dalla scorretta gestione della cosa pubblica, mentre con la seconda si risarcisce un danno a seguito di una lesione generata nell’ambito dell’attività privatistica svolta da produttori e fornitori di beni e di servizi. Dal punto di vista processuale ciò si traduce in una differenza del petitum, vale a dire dell’oggetto della domanda giudiziale: condanna al risarcimento danni nel caso dell’azione promossa ai sensi dell’art. 140-bis Cod. Cons., condanna ad assumere comportamenti virtuosi e rispettosi delle norme nel caso dell’azione intrapresa ai sensi del D. Lgs. n. 198/2009.

 

I dubbi della dottrina

La class action pubblica è stata oggetto di forti critiche, non solo da parte della dottrina e delle associazioni dei consumatori, ma – addirittura – del Consiglio di Stato che, nel parere reso sulla bozza di decreto, aveva evidenziato numerosi limiti e profili di perplessità.

 

Da più parti si era profetizzato che il testo fosse oltremodo generico e vago e che il rischio fosse che dall’approvazione del provvedimento sarebbe derivata “molta esposizione mediatica e poca sostanza”; tali critiche, unitamente ad alcune disposizioni poco felici, hanno senza dubbio scoraggiato la proposizione del rimedi di classe e non si è verificato il paventato intasamento delle aule dei T.A.R. sull’onda della caccia all’Amministrazione sprecona.

 

Innanzitutto si è osservato che il termine class action è utilizzato impropriamente (sarebbe sicuramente più corretto chiamarla “civic action”, azione civica), dal momento che non è previsto alcun diretto beneficio in capo a chi la attiva, a differenza di quanto previsto nel caso dell’azione di classe vigente nel campo dei servizi e del commercio. L’impossibilità di ottenere direttamente il risarcimento (una volta emessa la pronuncia di condanna è sempre possibile esperire gli ordinari rimedi per richiedere il risarcimento) rappresenta una grave menomazione, tenuto conto del fatto che – al contrario – la proposizione dell’azione comporta dei costi, anche in considerazione della circostanza per cui i procedimenti in questione non sono resi esenti dal versamento del Contributo Unificato previsto dal D.P.R. n. 115/2002.

 

Ulteriori perplessità sono state sollevate dalla previsione, contenuta nell’art. 8, D. Lgs. n. 198/2009, per cui dall’attuazione della class actionnon devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”; se il giudice, nel condannare l’Amministrazione, deve tener conto dell’organico e delle risorse dell’Ente, potrebbe trovarsi nell’impossibilità di rendere il provvedimento richiesto dai cittadini.

 

Non aveva convinto neanche la norma transitoria contenuta nell’art. 7, D. Lgs. n. 198/2009, secondo cui “in ragione della necessità di definire in via preventiva gli obblighi contenuti nelle carte di servizi e gli standard qualitativi ed economici di cui all’articolo 1, comma 1, e di valutare l’aspetto finanziario e amministrativo degli stessi nei rispettivi settori, la concreta applicazione del presente decreto alle amministrazioni ed ai concessionari di servizi pubblici è determinata, fatto salvo quanto stabilito dal comma 2, anche progressivamente, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze e di concerto, per quanto di competenza, con gli altri Ministri interessati”.

Dal momento che le Amministrazioni sono state sostanzialmente inerti (uno dei pochi Enti che ha adottato l’atto richiesto dall’art. 7 è stato il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti), il rischio era quello di ritenere che la norma transitoria – in realtà – contenesse un vero e proprio rinvio sine die per l’applicazione della class action.

 

La sentenza T.A.R. Lazio n. 552/2011

Tuttavia, proprio mentre lo scetticismo iniziava a prevalere, è arrivata la pronuncia positiva sulla prima azione collettiva intrapresa ai sensi del D. Lgs. n. 198/2009; come anticipato, si tratta della sentenza T.A.R. Lazio-Roma n. 552/2011 con la quale i Ministeri dell’Istruzione e dell’Economia sono stati condannati ad emanare il piano generale di edilizia scolastica.

 

In questa sede appare opportuno concentrarsi sulla parte della pronuncia con cui il Collegio si è espresso sull’ammissibilità del rimedio prima dell’adozione dei decreti attuativi da parte delle Amministrazioni interessate. In particolare, il T.A.R. Lazio ha affermato che l’art. 7 descrive “una norma incompleta che, avendo individuato in via generale e astratta posizioni giuridiche di nuovo conio, oltre che strumenti azionabili per la relativa tutela, ma non i parametri specifici della condotta lesiva, necessita di una ulteriore previsione normativa, agganciata alla peculiarità e concretezza dell’assetto organizzativo dell’agente ed ai limiti della condotta diligente dal medesimo esigibili, ferme restando le risorse assegnate”.

 

Il Collegio romano ha tuttavia significativamente affermato che tale discorso non vale per quelle norme del D. Lgs. n. 198/2009 che individuano fattispecie completamente definite in ogni loro aspetto, ivi compresa l’esatta perimetrazione del comportamento lesivo. Il riferimento, in questo caso è all’obbligo di emanazione di “atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento”. In queste ipotesi tutto è compiutamente predeterminato: la posizione giuridica tutelata è correlata all’emanazione di un atto le cui caratteristiche sono declinate direttamente dal legislatore, è regolamentata l’azione in relazione a tutti i profili rilevanti, è disciplinato il conseguente processo.

 

La conclusione per cui, nei casi di omissione di atti amministrativi generali o mancato rispetto dei termini, non vi è alcun valido motivo per escludere l’immediata operatività del D. Lgs. n. 198/2009 appare particolarmente felice e condivisibile; del resto, tale orientamento interpretativo è suffragato dalla Direttiva n. 4 adottata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione Pubblica in data 25 febbraio 2010 ed avente ad oggetto “attuazione dell’art. 7 del decreto legislativo 20 dicembre 2009, 198”.

 

Già nella Direttiva n. 4/2010 si leggeva che, senza attendere l’adozione degli atti regolamentari, possono essere comunque proposte le class action relative a:

  • violazione degli obblighi contenuti nelle Carte dei Servizi;

  • violazione dei termini;

  • mancata emanazione di atti amministrativi.

 

La pronuncia del T.A.R. Lazio ha ulteriormente suffragato questa interpretazione, sancendo – di fatto – l’avvio dell’azione collettiva pubblica, fortunatamente senza una “falsa partenza”.

Ernesto Belisario

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