I giudici di legittimità, richiamando un’importante e recente normativa in materia, le legge n.55 del 2010, hanno sottolineato l’importanza e il significato del Made in Italy.
L’articolo 1 comma 4, della citata legge, definisce per l’appunto cosa si intende per Made in Italy e quando è legittima l’apposizione sulla merce di questo marchio.
Marchio, che fra l’altro costituisce per i consumatori, un segno di garanzia della qualità e dell’autenticità del prodotto acquistato.
La dicitura Made in Italy “è permessa infatti esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione… hanno almeno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità” (tracciabilità che viene assicurata “attraverso l’evidenziazione del luogo di origine di ciascuna fase fase di lavorazion”).
Inoltre, nel settore calzaturiero si specificano dettagliatamente anche le singole fasi di lavorazione, e cioè: “la concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e al rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione”.
La Suprema Corte, nel casi di specie, sulla base di queste considerazioni rileva che “per le solette, così come per i gambali, vi sarebbe stata sia l’apposizione di un marchio di imprenditore italiano sia la falsa attestazione di fabbricazione del prodotto in un paese diverso da quello effettivo” .
Qui il testo integrale della sentenza
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