Con riferimento ai contratti a termine sono attualmente allo studio due ipotesi. La prima riguarda l’eventuale intervento sugli intervalli temporali obbligatori tra un rinnovo e l’altro, che la legge 92 del 2012 ha dilatato da 10 a 60 giorni per i contratti con durata fino a 6 mesi, e da 20 a 90 giorni per le forme contrattuali oltre i 6 mesi, con l’effetto di scoraggiare il prolungamento dei contratti da parte delle aziende. L’obiettivo del Governo è dunque quello di metter mano a questi periodi di intervallo, contraendoli, lasciando comunque alla contrattazione la prerogativa di poter stabilire pause più brevi.
La seconda misura all’esame riguarda invece il cosiddetto “causalone”, e cioè le ragioni di natura tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva volte a giustificare il ricorso al contratto a tempo determinato. La Riforma Fornero ha, al riguardo, abolito il ricorso al “causalone” per il primo contratto a termine per una durata fino a 12 mesi, che non risulta prorogabile. Per numerosi imprenditori, tuttavia, l’aver di fatto stabilito due regimi diversificati rappresenta un ostacolo applicativo, dal momento che per i contratti che durano più di 12 mesi è prevista la causale.
Questo istituto dovrebbe essere reso meno pesante dal Governo Letta, tramite la generalizzazione della acausalità oppure tramite la sostituzione della stessa, precisando le percentuali di ricorso al contratto di tempo determinato, da fissare tenendo conto delle prerogative dei singoli settori. Il modello prefigurato è preso da quello delle start-up, per le quali risulta già prevedibile l’assunzione di una percentuale di lavoratori con contratti a termine, a prescindere dall’indicazione della causale. Giorgio Santini del Pd riassume così: “Si sta ragionando su come rispondere all’esigenza di una semplificazione. Nel rispetto di quanto previsto dalla direttiva europea, va conservato un criterio di selettività per evitare abusi nel ricorso al contratto a termine al posto del contratto a tempo indeterminato”.
“Si guarda alle esperienze europee -aggiunge Santini- che indicano fondamentalmente due criteri, quello delle percentuali o quello delle causali”. Anche con riguardo all’apprendistato al centro del mirino c’è sempre la legge 92 del 2012 che prevede la possibilità di assumere apprendisti soltanto qualora il datore di lavoro risulti pienamente in regola con le percentuali di stabilizzazione. L’assunzione di nuovi apprendisti è correlata alla prosecuzione del rapporto lavorativo di almeno il 50% di essi (di cui il 30% nel corso dei primi tre anni di applicazione della legge).
Conclude Santini: “L’idea allo studio è quella di togliere l’obbligo della riconferma, sostituendo il vincolo con gli incentivi”. E’ stato indicato dai saggi anche il cosiddetto “rafforzamento dell’apprendistato”, dal momento che il ricorso all’istituto figura coma una quota marginale delle nuove assunzioni (il 2,8%). Stando poi alle comunicazioni obbligatorie esternate dal ministero del Lavoro tra il quarto trimestre 2012 ed il medesimo periodo del 2011 si è annoverato un crollo pari al 3%.
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