Contratti a termine e Collegato lavoro

Roberto Valdi 25/02/11
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La recente ordinanza n. 2112 del 28 gennaio 2011 della Corte di Cassazione in materia di contratto a termine segna l’ennesimo capitolo di una storia infinita che attiene all’annosa contrapposizione tra gli interessi dell’impresa, da una parte, e i diritti del lavoratore derivati dal contratto di lavoro subordinato, dall’altra.

La questione su cui si è espressa la Suprema Corte riguarda le conseguenze introdotte dal legislatore con il collegato lavoro nell’ipotesi in cui il Giudice converta un contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, in caso di illegittima apposizione del termine.

Con l’art. 32 della legge 183/2010 (cd. collegato lavoro), il legislatore ha infatti disposto che ove la clausola di apposizione del termine di un contratto di lavoro subordinato venga dichiarata nulla, il lavoratore ha diritto ad ottenere il risarcimento del danno, danno che viene, però predeterminato per legge in una indennità “omnicomprensiva”, quantificata nella misura compresa tra un minimo di 2,5 mensilità ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto.

Con tale disposizione, il legislatore aveva tentato di dare una definizione normativa all’esteso contenzioso che si era creato in materia di lavoro a tempo determinato, e che aveva intasato i tribunali di tutta la Penisola.

Le controversie erano insorte a seguito dell’emanazione del d. lgs. 368/2001 che sembrava aver eliminato, almeno in apparenza, gli ostacoli che rendevano problematico il ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato da parte delle imprese.

Prima dell’entrata in vigore del d. lgs. 368/2001, infatti, era possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato solo in presenza di specifiche ragioni, individuate tassativamente dalla legge o dai contratti collettivi.

Il d. lgs. 368/2001, aveva abbandonato il precedente sistema e lo aveva sostituito con un altro basato sulla clausola generale delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.

Per poter stipulare validamente contratto di lavoro a tempo determinato pareva, pertanto, sufficiente la sussistenza di una ragione che potesse rientrare tra quelle genericamente suindicate, con l’unico limite che essa ragione doveva essere specificata per iscritto nel contratto.

Sulla base di tale convinzione, nella stragrande maggioranza dei contratti a termine stipulati dopo l’entrata in vigore della suddetta norma, la clausola che giustificava l’apposizione del termine venne indicata in modo del tutto generico.

Tale modus operandi si è rivelato del tutto inadeguato, in quanto i Tribunali chiamati a decidere della validità di tale clausola hanno ritenuto che la generica indicazione delle ragioni giustificatrici del termine impedisse al Giudice di verificare la ragionevolezza delle scelte aziendali, e quindi al datore di lavoro di provare in giudizio la sussistenza di tali ragioni.

La conseguenza, decisamente onerosa per il datore di lavoro, era la declaratoria di nullità della clausola di apposizione del termine (azione di nullità, oltre tutto imprescrittibile) oltre all’automatica conversione del rapporto di lavoro in origine a termine, in un rapporto a tempo indeterminato.

La persistenza del rapporto di lavoro comportava altresì il diritto del lavoratore a richiedere la riammissione in servizio nell’impresa, oltre al risarcimento del danno costituito da tutte le retribuzioni perdute quanto meno dalla data della messa in mora sino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa.

La scelta operata dal legislatore con il collegato lavoro (tesa a porre rimedio alle conseguenze troppo penalizzanti per le imprese di tale meccanismo) viene ora però censurata dalla recente ordinanza della Corte di Cassazione la quale ha ritenuto che tale norma presenti profili di incostituzionalità.

I Giudici della Suprema Corte, infatti, hanno opinato che la norma che prevede una liquidazione di una indennità sproporzionata per difetto rispetto all’ammontare del danno subito dal lavoratore possa indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento contrastando in maniera netta con il diritto del cittadino al lavoro sancito dall’art. 4 della Costituzione.

Del tutto irrilevante ha poi ritenuto la Corte di Cassazione, che la limitazione dell’indennità possa trovare la propria giustificazione nel fine perseguito dal legislatore di evitare la perdita patrimoniale che deriverebbe all’impresa dal risarcimento di danni di notevole entità ad un numero evidentemente cospicuo di lavoratori.

Non resta, pertanto che attendere la decisione della Corte Costituzionale per verificare se prevarranno le esigenze di protezione degli interessi imprenditoriali o quelle di salvaguardia dei diritti del lavoratore subordinato.

Roberto Valdi

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