Il diritto al tempo dei social network: Facebook e la privacy

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Amato e odiato, Facebook potrebbe essere il social network più significativo per valutare le evoluzioni del diritto in rapporto alle nuove tecnologie, in virtù delle sue molteplici articolazioni. Recentemente, per problematicità giuridica gli tiene testa Twitter, nello specifico in riferimento alla decisione del giudice newyorkese, relativa agli eventi di OccupyWallStreet. Il diritto è un fenomeno sociale che nasce per regolare situazioni e casi pratici esistenti, intervenendo dunque in un momento posteriore alla vicenda occorsa, riuscendo raramente a disciplinare atti e fatti futuri, anche laddove prevedibili. Il diritto si nutre di problemi per partorire soluzioni. Ciò induce a chiedersi: nell’era della rivoluzione postdigitale, in cui i cambiamenti si susseguono a velocità immane, in cui un mese elettronico vale come un anno solare o anche più, quali metodologie dovrebbe inventare il diritto per correre alla stessa velocità, pur avendo avuto sinora tempi di consolidamento a volte pluriennali?

La risposta non può essere certo fornita in quattro righe, tuttavia le domande giuste possono ricercarsi studiando lo stato dell’arte, mediante un’analisi del social network ad oggi più famoso del mondo, quale specchio delle nuove sfide epistemologiche. Passando per alcuni temi chiave che caratterizzano Facebook si cercherà in più puntate di fornire spunti di approfondimento, inaugurando questo percorso con la delicata materia della tutela della sfera privata, quanto mai di attualità in questi giorni per la nota vicenda (ancora poco chiara) dei messaggi privati finiti in Timeline.

La questione che desta le maggiori perplessità concerne la tutela della privacy, essendo Facebook la piattaforma che più di tutte consente l’immissione di un quantitativo enorme di dati personali. Non è un caso che la governance del sito rilasci aggiornamenti degli strumenti per tenerla sotto controllo in maniera più frequente rispetto alle origini. A cavallo tra il 2011 e il 2012, a fronte dell’aumento delle possibilità di photo-tagging, geo-tagging e post-tagging, il sito ha introdotto misure idonee affinché gli utenti possano gestire la visibilità dei contenuti immessi. Così, al momento della pubblicazione di un post, è predisposto un ventaglio di opzioni per decidere la platea di lettori con cui condividere: pubblico, amici, amici eccetto conoscenti, solo io e personalizzato. La terza opzione presuppone, però, l’inserimento, nella lista dei conoscenti, dei contatti da escludere: di recente, l’operazione risulta facilitata poiché Facebook stesso suggerisce all’utente di inserirvi i contatti con cui, dalle statistiche, sembrano intercorrere meno rapporti. Segno che l’azienda teme l’allontanamento dei propri “clienti”, ora che il tema della privacy è divenuto sempre più scottante e preoccupa sempre più navigatori

Le novità più delicate, tuttavia, riguardano photo-tagging e geo-tagging, soprattutto dopo l’acquisto di Instagram da parte del colosso blu. Quanto alla geolocalizzazione, si è già detto dei rischi che implica: ove non usata in modo accorto, può essere il paradiso degli stalker e del social engineering. Ciononostante, in un periodo in cui assume sempre maggiore rilevanza la web reputation, quale valore immanente dell’individuo e in relazione alla valutazione che ne fanno i recruiter per selezionare gli aspiranti lavoratori, la più grande preoccupazione degli utenti è avere il controllo sulle immagini. Chi non teme di ritrovarsi taggato in una foto che lo ritrae in atteggiamenti potenzialmente inopportuni? La soluzione proposta da Zuckerberg in questo caso è la segnalazione:  dopo aver dichiarato che la foto riguarda se stessi o un amico, è possibile rimuovere il tag o anche affermare che il “taggatore” vi sta assillando. A questo punto è data una triplice scelta: limitarsi a rimuovere il tag, chiedere al “taggatore” di eliminare la foto o bloccare il soggetto, affinché non possa più interagire con noi.

Un cenno va, poi, fatto alla recentissima innovazione che permette di visualizzare chi abbia letto un post nei gruppi e di accertare se e quando un messaggio privato è stato letto: nel primo caso, è sufficiente scorrere il cursore del mouse affinché appaia la lista dei lettori del post, intitolata “visualizzato da”; nel secondo, nel momento in cui apriamo un messaggio di posta privato, al mittente appare l’ora della visualizzazione (interessante evoluzione della conferma di lettura tipica dei servizi e-mail). E’ evidente che tutto questo incide su uno dei capisaldi del web, ossia il lurking, il diritto a passare inosservati: forse sarà poco educato per alcuni, ma è innegabile che anche non rispondere a un direct messagge e non far sapere che lo si è letto sono libertà più che legittime, mentre un simile strumento può aumentare la pressione sociale, inducendo a rispondere controvoglia.

Il descritto sistema induce a fare le seguenti riflessioni. In primo luogo, occorre interrogarsi sulla reale consapevolezza degli utenti (anche e soprattutto più giovani, i cosiddetti nativi digitale, più abituati a condividere) circa gli strumenti di controllo offerti da Facebook; in secondo luogo e in senso più propriamente giuridico, sull’adeguatezza informativa dei Termini di Servizio e delle Privacy Policy. Il primo problema richiama l’esigenza di alfabetizzazione informatica dei cittadini: mai come in questa fase storica, l’importanza delle conoscenze multidisciplinari è pressante, posto il legame a doppio filo tra l’attrattività e la pericolosità dell’ITC. Il digital divide culturale segna in negativo l’approccio dell’utente, ponendolo in una posizione di svantaggio verticale e orizzontale: verticalmente, non può difendersi da soprusi e scorrettezze del service provider; orizzontalmente, non può difendere i proprio simili da un uso inappropriato del servizio (ad esempio, non evitando di ledere la reputazione altrui, taggandolo in foto sconvenienti). Il secondo problema richiama il diritto dei consumatori: nonostante le class action e l’incremento della disciplina a tutela della categoria, esso risulta ancora poco incisivo e non solo per i templi biblici dell’apparato giudiziario. Ne deriva che, accanto ad una rivisitazione della normativa pertinente, occorre dare nuovo assetto regolatorio agli obblighi informativi e alle modalità di redazione delle policy: nell’epoca di massima espansione dei diritti individuali, non è concepibile che il cittadino si trovi troppo spesso impotente dinanzi ai colossi imprenditoriali.

La sfida incombente, comunque, riguarda la risposta che scienze sociali, psicologiche e giuridiche possano dare all’interrogativo se è ormai mutato il concetto e il contenuto della privacy. Il grado di offensività di una violazione della privacy, infatti, non potrebbe che essere valutato da un giudice se non con riferimento a criteri extralegali, comunemente rinvenuti negli studi di altre scienze comportamentali: in che misura liquidare un danno da lesione della privacy, se il danneggiato palesa una percezione della stessa diversa da ciò cui siamo stati abituati finora? La legge dovrebbe prendere in considerazione l’accettazione del rischio di iscriversi a un sito di condivisione come parametro di valutazione? Non resta che attendere le future ed eventuali controversie giudiziarie per intravedere le prime e magari sorprendenti risposte, ma perché non cominciare a prepararsi in anticipo?

Francesco Minazzi

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