Assemblea UPA, l’intervento di Annamaria Testa sul ruolo delle donne

Supponete di avere un’azienda di famiglia e due figli, un maschio e una femmina. Supponiamo che viga ancora il maggiorascato (che sicuramente, nel panorama legislativo italiano, non spiccherebbe per bizzarria) e che la direzione generale debba quindi essere affidata al primogenito maschio. Si porrebbe, al quel punto, il problema di gestire la sacrosanta frustrazione di vostra figlia minore.

Avendo la fortuna di abitare in Italia, però, è possibile fare a meno delle manzoniane bambole vestite da monaca: basterà fare vedere a vostra figlia tanta TV. Su 100 esperti intervistati in quanto tali nei programmi televisivi, la vostra pargola e le sue ingombranti ambizioni ascolteranno solo 14 donne (dati dell’Osservatorio di Pavia). Il messaggio dovrebbe essere sufficientemente demotivante, e riuscire a farla desistere dai suoi propositi di successo personale. Vostro figlio – maschio – potrà quindi tenere le redini della vostra azienda senza essere disturbato dalla sorella, che se ne starà beatamente in cucina a parlare al telefono in bikini – proprio come nelle pubblicità!

Fortune come queste, ricorda Annamaria Testa all’assemblea dei soci U.P.A. tenutasi mercoledì al teatro Strehler di Milano, possono capitarvi solo in un paese capace di classificarsi 80° nel Gender Gap Index, l’indice del World Economic Forum che misura la disparità di genere in 135 stati nel mondo. Ci sono voluti anni di esclusione delle donne dai ruoli chiave della politica e dell’economia, ma alla fine ce l’abbiamo fatta: siamo dopo l’Uruguay, il Botswana, il Perù e Cipro.

Che la TV possa avere un ruolo così determinante nella formazione delle ambizioni personali non è così difficile da credere. In India, ricorda Testa, il film dedicato a una ragazzina – Alo – che fa di tutto per andare a scuola ha convinto milioni di persone dell’importanza dell’istruzione, e la foto del personaggio è appesa in tutte le aule del paese. Secondo dati dell’economista Eliana La Ferrara, le telenovelas brasiliane di Rede Globo hanno un effetto sull’emancipazione femminile pari a quello di due anni d’istruzione in più.

Meno ovvio sembra il collegamento tra la diffusione di un’immagine della donna rappresentativa anche della sua dimensione extraculinaria – non schiacciata sul modello moglie/odalisca – e lo sviluppo economico. Eppure, ragiona convincentemente Testa, il collegamento c’è. Quando uno stereotipo è diffuso in modo così capillare diventa lo standard nelle aspettative del gruppo sociale in cui è diffuso. Entro quel gruppo alcuni elementi subiscono dei meccanismi psicologici (studiati) che inducono a conformarsi a quelle aspettative: nel nostro caso, una donna che si vede rappresentata sempre come velina e mai come top manager tenderà a tenere bassa l’asticella delle ambizioni. Una donna che non lotta per il successo personale, però, è un concorrente in meno sul mercato del lavoro – che quindi, nel suo complesso, perde qualità e competitività.

È nell’interesse di tutti, allora, raccontare storie nuove, che tengano conto della mutata condizione della donna e che siano capaci di rappresentare al meglio la nuova società. è nell’interesse dei singoli riconoscersi in modelli realistici, in cui il 25% dei nuovi nati nel 2011 ha un genitore straniero, il 7,7% ha una madre con più di 40 anni e il 24,5% ha una madre non sposata. È nell’interesse delle aziende superare gli stereotipi e investire sull’originalità. Raccontare storie nuove, originali, e che rappresentano meglio la realtà vuol dire, infatti, spiccare dal piattume di storie già sentite ed essere ricordati con più facilità dai consumatori. Eppure, tutti continuano a parlare della velina di turno e mai di Fabiola Gianotti. Quella del bosone.

Marco Lo Monaco

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