Cassazione: non è licenziabile chi fuma sul posto di lavoro

Paolo Ballanti 28/08/18
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Non sempre si può licenziare chi fuma sul posto di lavoro. E’ infatti Illegittimo il licenziamento del dipendente fumatore se non configura un’ingiustificata sospensione dell’attività lavorativa. E’ il pensiero della Cassazione riportato nella sentenza n. 16965/2018.

La Suprema Corte si è pronunciata sul licenziamento di un dipendente reo di aver fatto uso della sigaretta elettronica nel locale mensa con la recidiva dell’uso del cellulare, oggetto di precedenti contestazioni disciplinari.

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Soccombente in primo e secondo grado l’azienda ricorreva in Cassazione. In particolare, il datore lamentava che la Corte d’Appello non aveva ritenuto la condotta del licenziato (uso della sigaretta elettronica e del cellulare) come un’illegittima sospensione dell’attività lavorativa, essendo a tal fine necessario il protrarsi dell’assenza per un periodo di tempo apprezzabile.

In base al contratto collettivo applicato (Ccnl Pubblici Esercizi) la sospensione dell’attività lavorativa era passibile di licenziamento disciplinare, a differenza della contravvenzione al divieto di fumare per cui era prevista solo una sanzione conservativa.

Investita della questione, la Suprema Corte rigetta il ricorso aziendale chiarendo in primis che la condotta contestata al dipendente non è qualificabile come “illegittima sospensione del lavoro”. Questa consiste infatti, si legge nella sentenza, in una “situazione transitoria di totale assenza della prestazione lavorativa”. Tale circostanza, sostiene la Cassazione:

  • Non era stata specificata nelle contestazioni disciplinari;
  • Il fumo non è di per sé incompatibile con il contestuale svolgimento della prestazione.

Quest’ultimo aspetto trova conferma nel fatto che il contratto collettivo prevede unicamente la sanzione conservativa per la contravvenzione al divieto di fumare o il fumare nei locali riservati alla clientela. Anche lo stesso uso del cellulare, oggetto di precedenti contestazioni disciplinari, non è qualificabile in termini di sospensione dell’attività lavorativa, tale da giustificare l’interruzione del rapporto di lavoro.

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Nessun rilievo ha poi sollevato la Suprema Corte sulla valutazione operata dalla Corte d’Appello circa la mancanza di proporzionalità tra sanzione (il licenziamento) e fatto contestato (uso della sigaretta e del cellulare). L’azienda sosteneva infatti che le previsioni del contratto collettivo, pur prevedendo misure conservative per la contravvenzione del divieto di fumare, non escludessero l’integrazione della giusta causa di licenziamento nei casi in cui il fatto rivestisse una particolare gravità.

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Si ricorda che per ravvisare la giusta causa di licenziamento, cioè il venir meno del vincolo fiduciario tra datore e dipendente, il giudice del merito deve verificare la natura e la qualità del rapporto di lavoro, la posizione delle parti, nonché i motivi e l’intensità del fatto contestato.

Sotto questo aspetto assume importanza la contestazione disciplinare. Questa dev’essere:

  • Tempestiva, con riferimento al lasso di tempo intercorrente tra la completa conoscenza del fatto da parte del datore e la contestazione stessa;
  • Analitica, descrivendo in maniera specifica gli addebiti.

Nella sentenza in parola, grande rilievo ha assunto, ai fini delle decisioni dei giudici, la contestazione non dell’illegittima sospensione dell’attività lavorativa ma del mancato rispetto del divieto di fumare.

Un monito questo agli addetti ai lavori (aziende e consulenti) nel qualificare attentamente la condotta del dipendente all’interno della lettera di contestazione e soprattutto la sua rispondenza alle fattispecie individuate dalla contrattazione collettiva.

Paolo Ballanti

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