A stabilire questa curioso precedente è la sentenza 14368 del 10 agosto 2012, che ha accolto la posizione critica dell’Ordine forense, contro alcune espressioni un po’ troppo colorite utilizzate da alcuni professionisti per sponsorizzare il proprio esercizio. In particolare, si tratta di formule-spot del genere “l’angolo dei diritti” o più genericamente “negozio”, quasi a trasmettere una prospettiva consumistica e commerciale della consulenza legale.
A scatenare la querelle, due avvocati che avevano promosso un po’ troppo vistosamente il proprio studio con le espressioni di cui sopra, incorrendo in una pronta censura da parte dell’Ordine, ribadita poi dal Consiglio nazionale forense. Addebiti a cui i due legali non si sono rassegnati, presentando ricorso in Cassazione in nome del decreto liberalizzazioni, ma la loro impugnazione è stata oggi puntualmente respinta dalla Corte.
L’illiceità di questo lessico deriva dal fatto che tali espressioni appartengono più propriamente al gergo pubblicitario, che fa leva sul versante emotivo ed esperienziale dell’utente, più che a una mera informazione di stampo formale e razionale, come previsto dalla deontologia adottata dalla categoria degli avvocati e dalle sua istituzioni di rappresentanza. Insomma, per chi preferisce la locuzione “negozio” a “studio legale”, si prevede una dura sanzione per aver trasceso i limiti di decoro linguistico in seno all’Ordine.
Anche eventuali richiami a prezzi convenienti, se non “stracciati” appartiene più allo scambio informativo tra attività commerciale e potenziale cliente, che investe una comunicazione di foggia più prettamente propagandistica volta ad attirare il passante. A sussiego di questa sentenza arriva anche il fresco d’approvazione decreto sulla riforma delle professioni, che prevede come lecita la pubblicità informativa funzionale all’oggetto, ossia alla prestazione offerta, evitando (in teoria) qualsiasi possibilità di fraintendimento e ogni richiamo evocativo o assimilabile a una sorta di “marketing” dell’attività.
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