La controversia giunta all’esame della Suprema Corte trae le origini dal ricorso avanzato da un dipendente di un istituto di credito non solo illecitamente estromesso dalla direzione generale ma, come accertato nei precedenti gradi di giudizio, vittima di un atteggiamento ostile e di scherno sul luogo di lavoro, in assenza di una qualsivoglia azione di tutela da parte del datore.
Si rammenta che la tutela dell’integrità fisica del lavoratore è sancita nell’ordinamento italiano da due norme fondamentali: l’articolo 32 della Costituzione e l’articolo 2087 Codice civile.
L’articolo 32 stabilisce che la Repubblica tutela la salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
In base all’articolo 2087 Codice civile, invece, è fatto obbligo al datore di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a proteggere l’integrità psicofisica e la personalità morale dei dipendenti. Ogni violazione accertata comporta il diritto del lavoratore al risarcimento danni. L’onere di provare l’esistenza del danno e la nocività dell’ambiente di lavoro grava sulla vittima, mentre il datore deve dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per evitare il danno.
Per antonomasia, l’inosservanza dell’articolo 2087 la si ravvisa nei casi di mobbing da intendersi come quel disturbo psichico del lavoratore provocato da una condotta sistematica e protratta nel tempo vessatoria e prevaricatrice, posta in essere dal datore o dai colleghi con l’obiettivo di emarginare la vittima. Il datore, quando non ne è lui stesso l’artefice, è chiamato a porre in essere tutte le misure necessarie affinché cessi la condotta mobbizzante.
La Cassazione, nell’interrogarsi sulla legittimità delle motivazioni sostenute dalla Corte d’Appello, rileva che la violazione dell’articolo 2087 codice civile si riscontra non solo in presenza del cosiddetto mobbing ma ogni qualvolta il dipendente subisca delle “azioni ostili anche se limitate nel numero e distanziate nel tempo” quindi non rientranti in toto nei parametri del mobbing.
Queste situazioni, prosegue la Suprema Corte, provocano nella vittima uno “stress forzato” con una “modificazione in negativo, costante e permanente” della condizione lavorativa “atta ad incidere sul diritto alla salute”.
Tale stress forzato, secondo la Cassazione, può anche derivare “dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all’articolo 2087 cod. civ.”.
Il datore è perciò chiamato ad “evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale” possa presuntivamente condurre ad un danno alla salute del lavoratore “anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio” come tale proprio del mobbing.
Nel caso di specie si è accertato che all’estromissione del lavoratore dalla direzione generale seguì un “diffuso atteggiamento ostile e di scherno, realizzatosi anche mediante diffusione di lettere” in assenza peraltro di “qualsivoglia iniziativa datoriale volta a tutelare il dipendente”.
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