Trasparenza e accesso agli atti: fino a dove arriva la libertà di informazione?

Fernanda Faini 05/09/16
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Il Consiglio di Stato si trova ad affrontare la «complessa» (per sua stessa affermazione) questione della libertà di informazione nel nostro ordinamento giuridico nella sentenza n. 3631 del 12 agosto 2016.

Si tratta del ricorso in appello proposto dal giornalista di Wired Guido Romeo avverso la sentenza del TAR Lazio – Roma, sez. II, n. 13250 del 2015, relativa al diniego di accesso agli atti su contratti finanziari in derivati tra lo Stato e alcuni istituti di credito.

Al riguardo, per comprendere pienamente il portato della sentenza, occorre fare un passo indietro.

La vicenda

La vicenda ha come protagonista il giornalista Guido Romeo che aveva presentato, ai sensi dell’art. 22 della legge 241/1990, istanza di accesso ed estrazione copia di tutti i contratti in derivati tra l’Italia e 19 istituti di credito e, in via subordinata, ai 13 contratti in derivati attualmente in vigore per i quali è presente la clausola di recesso anticipato.

L’istanza era motivata con il diritto di cronaca e informazione, dal momento che il giornalista aveva avviato un’inchiesta, al fine di informare l’opinione pubblica sull’impiego di tali strumenti finanziari e i rischi connessi per la finanza pubblica, soprattutto riguardo ai contratti derivati contenenti clausole di chiusura anticipata a beneficio di istituti finanziari. L’interesse qualificato del giornalista viene correlato al fatto che si tratta di organo di informazione titolare del diritto di cronaca a presidio di posizioni costituzionalmente garantite dall’art. 21 della Costituzione.

A fronte del mancato riscontro all’istanza da parte del Ministero, il giornalista ha fatto ricorso al TAR Lazio contro il silenzio diniego, deducendo l’assenza di divieti nelle fonti primarie e nei decreti del MEF stesso, che non individuavano fra le tipologie sottratte all’accesso quella dei contratti derivati. Il Ministero si è difeso adducendo il difetto di legittimazione all’accesso in capo al giornalista e rilevando che l’istanza era preordinata al controllo generalizzato (per quanto settoriale) dell’azione del MEF e quindi vietato come tale dall’art. 24, comma 3, della legge 241/1990.

La sentenza del TAR del Lazio

Il TAR Lazio con sentenza n. 13250 del 24 novembre 2015 ha respinto la pretesa ritenendo che la posizione di giornalista e l’interesse dei potenziali lettori non fossero elementi «sufficienti a fondare una legittimazione qualificata all’accesso» e che l’effetto della divulgazione sarebbe stato «pregiudizievole sulle attività in derivati, con svantaggio competitivo di Stato e istituti nel mercato».

Secondo il TAR «la modalità di accesso pretesa, come si manifesta nel caso in esame, finisce per coincidere in realtà con l’ostensione preordinata “ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” vietata espressamente dall’art. 24, comma 3, L. n. 241 del 1990. Il diritto di accesso ai documenti, infatti, non si configura come una sorta di azione popolare, volta ad ottenere una verifica in via generale della trasparenza e legittimità dell’azione amministrativa […]»; inoltre «[…] la divulgazione di tali contratti (a prescindere dalla riconducibilità di essi ad una specifica fattispecie coperta da riservatezza) avrebbe riflessi pregiudizievoli sulle attività in derivati poiché determinerebbe uno svantaggio competitivo dello Stato nei riguardi del mercato e porrebbe in svantaggio competitivo gli stessi istituti di credito, controparti del Tesoro nei contratti in oggetto, così pregiudicando la disponibilità di essi ad applicare condizioni favorevoli con ripercussioni negative sull’intera gestione del debito pubblico.

Sicché il diniego non appare né pretestuoso né immotivato bensì fondato su elementi di primario rilievo per l’interesse pubblico finanziario». Il TAR, oltre a respingere nel merito il ricorso, aveva anche condannato il giornalista Romeo alle spese processuali individuate in 1.000 euro.

Il ricorso viene appellato davanti al Consiglio di Stato presentando alcune motivazioni principali, che si possono riassumere nelle seguenti: non aver riconosciuto l’interesse rilevante e differenziato; la falsa rappresentazione dei fatti di causa, dato che l’istanza riguardava un numero limitato di atti, individuati in modo specifico (e non era preordinata a un controllo generalizzato); l’illegittimità del diniego tacito e l’illegittima condanna alle spese di lite.

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La riforma della trasparenza

La riforma della normativa sulla trasparenza, il D.Lgs. 33/2013 riscritto in parte dal D.Lgs. 97/2016, mira ad introdurre in Italia un vero e proprio Freedom of Information Act (FOIA), in analogia a quanto fatto nei Paesi del Nord Europa ed anglosassoni, richiedendo un profondo ripensamento delle modalità operative e mettendo la trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione al centro della propria attività.L’elemento più rilevante della riforma, tale da indurre le amministrazioni a modificare organizzazione e comportamenti, amplia l’accesso civico, che divienediritto di ogni cittadino di pretendere la pubblicazione nei siti istituzionali degli atti e delle informazioni da rendere obbligatoriamente pubblici e ottenere gratuitamente dati, informazioni e documenti prodotti. L’eventuale rigetto delle domande di accesso dovrà essere sempre molto ben motivato.La riforma punta anche alla semplificazione dei troppi adempimenti richiesti dalla normativa: viene eliminato il Piano triennale per la trasparenza e l’integrità, essendo sufficiente il Piano triennale della prevenzione della corruzione; alcuni adempimenti non saranno più richiesti, come la produzione dell’elenco semestrale dei provvedimenti in tema di appalti e concorsi; alcune pubblicazioni sui portali, nella sezione “Amministrazione trasparente”, potranno effettuarsi tramite link già presenti nei siti, evitando duplicazioni; i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti saranno esentati da una serie di adempimenti su cui si attendono le linee guida che emanerà l’Anac; vengono estesi gli obblighi di pubblicità incombenti sugli organi politici anche ai dirigenti pubblici.   Luigi Oliveri Dirigente amministrativo della Provincia di Verona, collaboratore del quotidiano “Italia Oggi”, autore di molteplici volumi sul Diritto amministrativo e degli Enti locali, docente in corsi di formazione.

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La sentenza del Consiglio di Stato

La sentenza del Consiglio di Stato n. 3631 del 12 agosto 2016, che nel merito conferma la sentenza del TAR, ma accoglie il ricorso limitatamente alle spese in giudizio, risulta particolarmente significativa per una serie di aspetti e per le precisazioni in punto di motivazione, che mettono in luce profili giuridici di grande interesse.

Sulle spese in giudizio, unico punto su cui viene accolto il ricorso, il Consiglio di Stato significativamente “bacchetta” il TAR per due ordini di motivi.

Il primo è riconducibile all’inerzia del Ministero intimato a provocare la lite, su un’iniziativa d’accesso non pretestuosa e che lo stesso TAR ha definito «…ispirata all’apprezzabile fine di svolgere attività di informazione a vantaggio della pubblica opinione…».

Il secondo motivo è ancora più interessante: per il Consiglio di Stato «l’infondatezza della pretesa azionata discende non ictu oculi, ma da una vicenda in sé normativamente complessa e connotata da arresti di giurisprudenza e da avvisi della dottrina non univoci e tuttora in divenire, inerenti ad aspetti seri e delicati a rilevanza costituzionale»: lo stesso Consiglio di Stato sembra ammettere la difficile e non immediata soluzione della questione, “mettendo le mani avanti” con il richiamo alla dottrina in materia e al fatto che non sia univoca e anzi in divenire. Sembra (almeno a chi scrive) che con questo significativo passaggio il Consiglio di Stato voglia quasi sottolineare il fatto che si tratta di una sentenza “sofferta” in considerazione dei valori costituzionali in gioco.

Il Consiglio di Stato non si limita al TAR, ma “bacchetta” anche il Ministero sul silenzio diniego: a differenza del TAR, che aveva ritenuto il silenzio diniego «né pretestuoso né immotivato, bensì fondato su elementi di primario rilievo per l’interesse pubblico finanziario», il Consiglio di Stato appella come «inammissibile» la «sostituzione d’un concreto provvedimento di diniego, mai emanato, con uno scritto difensivo, volto a surrogare una inespressa volontà della P.A., che potrebbe pure avere opinioni più articolate al riguardo».

Sulle motivazioni per le quali il ricorso viene respinto il Consiglio di Stato espressamente afferma che «il punto centrale della presente controversia è e resta, avendo voluto l’appellante adoperare proprio lo strumento ex artt. 22 e ss. della l. 7 agosto 1990 n. 241 deducendo la propria libertà di informarsi per informare, la soggezione del diritto di accesso, come ivi delineato, alle stringenti regole colà previste e, quindi, la legittimazione dell’appellante al loro uso e, di conseguenza, ai rimedi che l’ordinamento appresta a garanzia di questo» e ancora «senza poter prendere in considerazione la successiva evoluzione della disciplina normativa in materia di trasparenza delle pubbliche amministrazioni e di conoscenza dei relativi atti».

Il Consiglio di Stato con convinzione afferma che «nella specie si controverte non sulla ratio generale dell’accesso, ma della sua utilizzabilità da parte dell’appellante nella concreta situazione per cui è causa e nel contesto normativo della legge n. 241, invocato dall’appellante medesimo».

L’impostazione è condivisibile e corretta, ossia un’analisi incentrata sulla legge 241/1990 ai sensi della quale il ricorso è stato proposto.

Peccato che lo stesso Consiglio di Stato non sia completamente fedele al suo proposito quando si spinge nell’interpretazione del d.lgs. 97/2016 che «svincola il diritto di accesso da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato) e, al contempo, sottopone l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5 bis. In tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del richiedente».

Un inciso, potremmo dire ultroneo rispetto all’oggetto di discussione (incentrato sulla legge 241/1990 come sottolineato dallo stesso Consiglio di Stato in un passaggio precedente), che sembra “ipotecare” anche il futuro ad un concreto bilanciamento che, utilizzando il d.lgs. 97/2016, è facile intuire nel caso di specie sarà a favore del diniego, dal momento che fra le esclusioni tese ad evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici protetti (sui quali tanto si è battuta la società civile anche in Foia4Italy) appare all’art. 5 bis comma 2 del d.lgs. 33/2013 (inserito dal d.lgs. 97/2016) «la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato».

E il Consiglio di Stato nel motivare la conferma nel merito della sentenza del TAR,  riconosce «il consolidamento dell’autonomia della libertà di informazione» e «la posizione qualificata e differenziata degli organi di stampa (e, quindi, dei giornalisti) circa la conoscenza (del contenuto) degli atti detenuti dalla P.A.», reputa che esiste l’interesse a ricercare notizie azionato dall’appellante ed è vera la relazione giuridica tra chi informa e chi viene informato, però «non solo non si può legittimamente predicare l’esistenza d’un diritto soggettivo in capo ai destinatari tale addirittura da condizionare la posizione di chi informa pure nei contenuti e nel risultato, ma non si ravvisa, nel corpo dello stesso art. 21 Cost., il fondamento di un generale diritto di accesso alle fonti notiziali, al di là del concreto regime normativo che, di volta in volta e nell’equilibrio dei molteplici e talvolta non conciliabili interessi in gioco, regolano tal accesso».

Il Consiglio di Stato esprime la necessità di evitare ogni generalizzazione sul rapporto fra diritto d’accesso e libertà di informare e «il nesso di strumentalità tra le due figure, che pure esiste, si sostanzia non già reputando, come fa l’appellante, il diritto di accesso qual presupposto necessario della libertà d’informare, ma nel suo esatto opposto. È il riconoscimento giuridico di questa che, in base alla concreta regolazione del primo, diviene il presupposto di fatto affinché si realizzi la libertà d’informarsi».

Secondo il Consiglio di Stato è necessaria una indagine “di volta in volta” (e quindi possiamo dirlo anche discrezionale) circa la consistenza della situazione che legittima l’accesso e la decisione va articolata a seconda della normativa di riferimento, dato che «l’evoluzione della legislazione in materia, che pure è via via sempre più aperta alle esigenze di trasparenza dell’azione pubblica, ha portato a configurare le diverse forme di accesso più che a guisa di un unico e globale diritto soggettivo di accesso agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri, come un insieme di sistemi di garanzia per la trasparenza, tra loro diversificati pur con inevitabili sovrapposizioni.

Sicché s’avrà una maggiore o minore estensione della legittimazione soggettiva, a seconda della più o meno diretta strumentalità della conoscenza, incorporata negli atti e documenti oggetto d’accesso, rispetto ad un interesse protetto e differenziato, diverso dalla mera curiosità del dato, di colui che esprime sì il bisogno di accedere, ma con le modalità previste dalla specifica disciplina normativa invocata».

Insomma, niente right to know come principio generale, ma come strumento, “sistema di garanzia” per la trasparenza. In questa ricostruzione «il diritto di cronaca è presupposto fattuale del diritto ad esser informati ma non è di per sé solo la posizione che legittima l’appellante all’accesso invocato ai sensi della legge n. 241».

Il concetto di trasparenza “procedimentale”

Pertanto la sentenza ammette la complessità, appare “sofferta” e meritoriamente ribalta sul punto delle spese, ma per gli altri aspetti sembra far ancora riferimento a quel concetto di trasparenza “procedimentale” così caro al nostro ordinamento e lo fa anche quando con riferimento ai principi della società dell’informazione di matrice europea richiama il fatto che regimi nazionali possano delimitare l’accesso anche con riferimento alla titolarità di una posizione legittimante. Insomma non si ha il riconoscimento di una vera e propria libertà e ancora va percorsa tanta strada per affermare il diritto a conoscere nel nostro Paese.

Se per il Consiglio di Stato la questione è complessa, possiamo affermare che ancora è “complesso” comprendere fino a dove possa arrivare il diritto a sapere e quali siano i presupposti della libertà di informazione, che consentano di non doversi affidare alle valutazioni discrezionali “di volta in volta” su un bilanciamento fra interessi di tale importanza per il Paese.

Peraltro, a parere di chi scrive, se è chiara la ricostruzione teorica, nella sentenza sembra alquanto sfumata proprio la motivazione specifica alla base del concreto bilanciamento nella fattispecie. Viene, infatti, da chiedersi: quali sono i presupposti per riconoscere l’interesse differenziato e qualificato del giornalista? Sotto questo profilo è un’occasione mancata per far chiarezza sul punto.

Dopo la lettura di questa sentenza, un dato sembra chiaro.

Deve andare avanti con convinzione la battaglia per il diritto a conoscere, che si traduce a breve termine nell’emanazione di ottime linee guida di attuazione del d.lgs. 97/2016 e a lungo termine in adeguate attuazioni. Significa fornire certezza ai comportamenti dei componenti della società e quindi garantire certezza del diritto.

Del resto ha ragione il Consiglio di Stato quando dice che ancora sono questioni «in divenire, inerenti ad aspetti seri e delicati a rilevanza costituzionale»: sì, non c’è dubbio, sono tematiche che ineriscono alla libertà, più o meno, garantita nel nostro Paese.

 

 

 

 

 

Fernanda Faini

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