Riforma PA Renzi-Madia: diritti e doveri dei manager pubblici

Redazione 02/06/14
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Per uscire dalla perversa logica dei tagli indiscriminati, che mortificano i virtuosi e poco incidono sui comportamenti deviati, occorre ridefinire un modello organico del lavoro alle dipendenze della p.a. ed attuare un piano graduale di transizione  che  porti ad una riorganizzazione coerente con quel modello.

Il presente articolo è firmato da Sergio Rosato, direttore Agenzia Veneto Lavoro e segue questo articolo

L’operazione è meno difficile di quanto si pensi o si voglia far pensare.

La specialità del lavoro pubblico si basa esclusivamente sulla  considerazione che il datore di lavoro pubblico non persegue esclusivamente fini economici ma fini propri dell’ordinamento,  sintetizzabili nel concetto di interesse generale. L’amministratore pubblico, pertanto, deve gestire le risorse, anche il personale, rispettando i principi  della buona amministrazione, che nello specifico si traducono nell’imparzialità, economicità e trasparenza. Egli non deve rispondere  solo alla proprietà ed al  consiglio di amministrazione ma alla collettività. La sua professionalità si misura nella capacità di gestire nell’interesse generale le risorse che gli vengono affidate.

 

Nella gestione delle risorse umane il manager pubblico si deve attenere ad uno statuto speciale rispetto al manager privato solo con riguardo a due momenti della gestione:

  1. La fase del reclutamento: a differenza che nel settore privato  i meccanismi di selezione  del personale devono essere trasparenti ed imparziali. Ciò non significa  necessariamente il ritorno alle vecchie farraginose procedure concorsuali, essendo possibili procedure di selezione snelle, rapide e più efficaci, ma al contempo garantistiche del merito e del bisogno.
  2. I trattamenti economici e normativi: a differenza che nel settore privato, in cui la discrezionalità del manager è limitata solo dal divieto di trattamenti discriminatori, nel settore pubblico anche la gestione degli inquadramenti, delle progressioni di carriera, del riconoscimento del merito e della produttività, l’esercizio del potere disciplinare  devono essere gestiti in maniera trasparente secondo regole generali fissate dalla contrattazione collettiva.

 

Al di fuori di questi due aspetti nessuna peculiarità e specialità può essere invocata, essendo del tutto auspicabile la piena omogeneizzazione del lavoro subordinato ed autonomo, indipendentemente dal settore in cui viene prestato.

Le forme contrattuali, gli istituti normativi previsti dalle leggi e dalla contrattazione collettiva applicabili ai rapporti di lavoro, non solo devono tendere all’uniformità, ma devono essere in ogni caso utilizzabili  anche dal manager pubblico, in quanto necessari a perseguire la gestione in termini di economicità, efficienza ed efficacia.

La naturale diffidenza che porta a limitare le prerogative del manager pubblico, si basa  sulla presunzione che questi, non subendo una sanzione dal mercato in caso di cattiva gestione, sia propenso per sudditanza politica e per quieto vivere ad operare senza i vincoli della buona amministrazione.

Parimenti, l’ossessione del contenimento della spesa pubblica, in gran parte costituita dal costo del personale, induce a privilegiare la logica dei tagli.

Allorché si  è tentato  di affrontare questi due aspetti cruciali, gli studiosi e gli esperti hanno sempre puntato a complesse soluzioni di ingegneria istituzionale, ignorando  le soluzioni più semplici ed immediate:

  • Esercitare  il controllo e  la valutazione  del manager pubblico non sui singoli aspetti della  gestione, ma  con riguardo  a due momenti: a) l’approvazione  del piano delle attività e l’assegnazione del budget; b) la valutazione dei risultati
  • Legare parte consistente dei compensi dei manager pubblici ai risultati conseguiti.
  • Sanzionare  con il licenziamento i comportamenti più gravi.

 

L’impianto strumentale che deve sorreggere l’applicazione del modello si basa sostanzialmente su tre accorgimenti:

  • Estendere ai dirigenti pubblici l’applicazione del CCNL dei dirigenti privati
  • Affidare ad assestement esterni ed indipendenti (dalla politica) la valutazione del loro operato sulla base di parametri oggettivi
  • Definire procedure di conciliazione ed arbitrato per la gestione delle controversie

 

La gestione della transizione

Un ostacolo non trascurabile all’affermazione di questo modello è dato dalla difficoltà di introdurre nuove regole con il treno in corsa. In altri termini, poiché  la gran parte degli amministratori  e dei dirigenti pubblici opera in un contesto che non risponde a queste logiche,  con situazioni molto differenziate spesso ereditate dal passato, senza margini di autonomia e di pieni poteri manageriali, si tende a ritenere velleitaria qualsiasi proposta riformatrice.

Il continuo oscillare del pendolo tra processi riformatori di facciata  e processi regressivi,  quali le punitive limitazioni introdotte dalle ultime finanziarie, è dovuto all’incapacità di gestire la fase di transizione al nuovo  modello.

Nessuna proposta, per quanto valida, può avere  probabilità di successo se non affronta anche il problema di come gestire la transizione.

Con riguardo alla problematica di fondo che in questa sede si vuole approfondire, vale a dire l’impiego delle risorse umane da parte delle pubbliche amministrazioni, occorre in primo  luogo affrontare il nodo gordiano della assoluta irrazionalità con  cui  si sono determinati e si determinano  gli organici delle singole amministrazioni.  La situazione attuale è talmente priva di qualsiasi logica economica e produttiva da  potersi definire …demenziale!

Per quale ragione a parità di dimensioni, competenze e funzioni ciascun ente locale può  avere un organico  completatamene diverso?  Perché una sede Inps del Veneto può avere un organico pari ad un terzo di una analoga sede della Calabria? Perché la Questura di Treviso ha la metà degli addetti di quella di Viterbo? Perché il Centro per l’Impiego di Padova ha il decimo del personale di quello di Caserta?…..E gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

Poiché la cervellotica distribuzione del personale, si badi,  non la sua eccedenza,  è la causa principale del dissesto della spesa pubblica, una semplice ed oculata politica punterebbe a contenere la spesa non bloccando le assunzioni (per poi sanare i precariati) ma puntando a  correggere tale stortura, seppur con gradualità e sulla base di un processo governato.

Il tentativo fatto nel passato di analizzare i carichi funzionali, affidandone la determinazione e la misurazione alle stesse amministrazioni, è miseramente fallito, sia per la complessità dell’operazione, sia per la ovvia resistenza degli apparati ben sorretti  dai sindacati di categoria.

Gli  strumenti per realizzare tale politica, pertanto, devono essere al tempo stesso più semplici e più automatici. Pochi parametri oggettivi,  per i quali i dati siano facilmente  ricavabili dalle statistiche ufficiali, possono essere sufficienti a stabile quale debba essere il numero “ottimale” di pubblici dipendenti per ciascuna funzione ed in ciascun territorio. I parametri oggettivi sono dati nella stragrande maggioranza dei casi dalla popolazione di riferimento, dal servizio che si intende assicurare e dagli obiettivi che si vogliono perseguire.

Questa a mio avviso è “la madre di tutte le riforme”, senza la quale qualsiasi intervento sarebbe privo di efficacia. Bisogna comprendere, dopo i clamorosi fallimenti dei vari tentativi di riforma, che il vero  problema non è la carenza di principi e di regole, ma la loro ineffettività,  a causa  del  deficit  strutturale  di natura organizzativa che ne inquina le logiche gestionali.

L’auspicio è che l’ennesimo tentativo di riforma  non si risolva in un’altra alluvione di “editti manzoniani” ma aggredisca alla radice questo problema.

Redazione

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