L’ ideologia, ovvero: per andare dove dobbiamo andare per dove dobbiamo andare?

Giuseppe Vella 28/03/14
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Un vecchio professore di letteratura italiana disse che quella di Totò non era una semplice battuta inserita con spontaneità in un film di “cassetta” ma un vero e proprio manifesto politico.
È difficile che i sedicenni vogliano capire i manifesti politici ma gli anni sessanta, sotto l’aspetto dell’impegno politico furono anni diversi, e una battuta del film Queimada di Gillo Pontecorvo squarciò l’orizzonte di una cultura sempre più ideologica: è meglio sapere dove andare e non sapere come che sapere come andare e non sapere dove.
Stiamo parlando della fine degli anni in cui il dibattito culturale italiano si svolgeva tutto all’interno della sinistra cioè del vecchio PCI.
Totò non aveva grande simpatia per la politica e per i politici e con la battuta “per andare dove dobbiamo andare per dove dobbiamo andare”, secondo il mio vecchio professore, aveva voluto sbeffeggiare il PCI che propagandava la rivoluzione proletaria ma non sapeva come raggiungerla in un paese che faceva parte dello schieramento opposto.
Mentre Gillo Pontecorvo, regista ed intellettuale di sinistra, aveva affermato l’importanza dell’ideologia che ti permette di sapere come comportarti perché sai dove vuoi arrivare.
Passano gli anni ma il discorso, anche se culturalmente decaduto, è sempre lo stesso: possiamo decidere di giorno in giorno cosa fare (modello capitalistico con enfatizzazione del ruolo del mercato) o dobbiamo avere una solida idea di modello sociale a cui tendere?
L’ideologia serve ancora alla politica?
Che cosa è cambiato negli ultimi cinquanta anni?
Di certo, chi cinquanta anni fa aveva raggiunto l’età per intendere e per volere (14 anni) si sentiva interessato ed attratto dal discorso culturale e politico; oggi lo evita, anzi, lo rifiuta.
La musica in primis ma anche il cinema, il teatro, la letteratura, la pittura, anche i fumetti erano impregnati di quello che veniva chiamato realismo socialista, cioè avvicinare l’espressione artistica alla cultura delle classi proletarie e celebrare il progresso socialista.
Purtroppo la cosiddetta classe proletaria non conosceva il latino, non aveva dimestichezza con la cultura classica ed i primi socialisti che arrivarono al potere in Italia, al posto di cercare di elevare l’operaio ed i suoi figli insegnandogli il latino, abolirono il latino come materia di studio obbligatorio.
La sinistra al potere, negli anni sessanta, esaltò le scuole tecniche pensando di relegare a ruolo subalterno la scuola classica, elevavano a sistema scolastico la mediocrità, senza nemmeno rendersene conto.
Oggi molti dottori in giurisprudenza, provenendo dalla scuola tecnica e non dal ginnasio, non conoscono Cicerone, non hanno mai tradotto Ovidio o Seneca.
Eppure, la nostra cultura è classica, anzi, una ricerca statistica fatta nell’università degli anni settanta rivelò che chi conosceva il latino e il greco si affermava anche nel campo scientifico; l’esame di analisi matematica veniva superato con maggiore facilità dagli studenti provenienti dal liceo classico rispetto a quelli delle scuole tecniche.

Dunque, ciò che vale per i dottori in giurisprudenza vale anche per i dottori in economia, in parte provenienti dalla scuola commerciale.
Allora, quella che stiamo vivendo, è crisi economica o è crisi culturale?
La cultura! Che cosa è la cultura?
Dice il dizionario che la cultura è l’insieme di conoscenze che concorrono a formare la personalità e ad affinare le capacità ragionative di un individuo.
Sempre il dizionario dice che la cultura è anche l’insieme delle conoscenze letterarie, scientifiche, artistiche e delle istituzioni sociali e politiche proprie di un intero popolo, o di una sua componente sociale, in un dato momento storico.
È così?
La nostra scuola, le nostre famiglie, la tradizione di tramandare cultura anche oralmente esiste più?
I padri e le madri hanno più il tempo di sedersi a tavola con i figli?
Oggi se i genitori hanno un lavoro è proprio difficile che si possano sedere a tavola, con i figli o senza, devono ottemperare agli standard di “produttività”.
Se i genitori moderni un lavoro non lo hanno più, è difficile che in quella casa possa esistere una tavola intorno a cui sedersi.
È questa la vita che vogliamo?
È questa la vita che abbiamo sognato, che abbiamo voluto, per cui alcuni hanno lottato?
Tyler Cowen, un economista americano, dice: “Ognuno si faccia una domanda semplice: computer e software intelligente aumentano il valore del mio lavoro o gli fanno concorrenza? Se la risposta è la seconda, è solo questione di tempo prima che vi battano”.
Siccome le cose fatte dai computer sono facilmente misurabili e valutabili dovremo, per la pura sopravvivenza, essere misurabili e valutabili anche noi; non più uomini ma api operaie.
Allo scopo sembra indispensabile far credere al popolo la necessità della meritocrazia.
Quest’ultima però è psicologicamente pesante perché ci ricorda costantemente i nostri fallimenti e dimentica con estrema facilità i nostri successi.
Ad esempio, di ogni giornalista oggi, a differenza di prima, si sa esattamente quante persone leggono i suoi articoli sul web: non è più importante cosa scrive il giornale nel suo insieme e la quantità di lettori del giornale ma è necessario accentuare la prestazione del singolo. E sarà così in sempre più settori.
Non a caso la teoria economica a cui fa riferimento Cowen si chiama “marginalismo”.
Viene facile la battuta: forse si chiama marginalismo perché spinge sempre più persone ai margini della società.

Allora?
Per dove dobbiamo andare per andare non dove dobbiamo ma dove vogliamo andare?
Non è importante scegliere la strada giusta o la strada più breve o, peggio ancora, la strada più comoda, l’importante è sapere cosa vogliamo trovare una volta giunti alla meta.
Comunque, se sulla strada troviamo delle librerie vuol dire che abbiamo imboccato la strada giusta, a patto di leggere ogni tanto qualche libro.

Giuseppe Vella

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