Intercettazioni, cosa dice la legge. Intervista al Pm Nicola D’Angelo

Scarica PDF Stampa
Tra nove mesi, ci sarà un altro governo. Si saranno tenute le elezioni politiche e – salvo sorprese o esiti delle urne troppo incerti – la classe politica sarà ritornata al posto che le compete e che deve dimostrare di meritarsi, stante il crollo di credibilità degli ultimi tempi, agli occhi dell’opinione pubblica. A ruota, come già accadde nel 2006 in seguito all’insediamento del secondo governo di Romano Prodi, le Camere appena elette dovranno riunirsi in sessione plenaria per eleggere il successore di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica.

Nel frattempo, impazza la tempesta:  le procure siciliane indagano , con la ribattezzata indagine sulla “trattativa Stato-mafia”, per ricostruire una storia ancora, in gran parte, ignota, quella che dai primi anni ’90 ha portato alla nascita della Seconda Repubblica. Come noto, è filtrata la notizia che le intercettazioni disposte si siano imbattute proprio nella voce di Napolitano, in colloquio privato con l’indagato ed ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, comunque già definito di nessuna utilità ai fini delle indagini.

Qualche giorno fa, però, il settimanale Panorama ha elaborato una ricostruzione molto avversata, non sulla base di trascrizioni autentiche del dialogo tra Napolitano e Mancino, ma riportando un quadro degli argomenti trattati dai due interlocutori e in base a più o meno ardite supposizioni di illustri editorialisti. Dalla bocca del Capo dello Stato, secondo la rivista, sarebbero usciti giudizi nient’affatto lusinghieri su alcuni protagonisti della scena politica, come Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro, oltre che sulla stessa Procura di Palermo.

Una versione, naturalmente, smentita dai diretti interessati, Quirinale su tutti, che ha però riaperto un feroce dibattito sull’uso delle intercettazioni a mezzo stampa, sull’etica del giornalismo e, non da ultimo, sull’equilibrio istituzionale più che mai a rischio. Infatti, dopo il conflitto di attribuzione sollevato da Napolitano proprio nei confronti della Procura palermitana, le nuove rivelazioni hanno il potenziale di tirare ancor più il già sottile filo di giuntura tra i poteri dello Stato.

Ne parliamo con Nicola D’Angelo, magistrato di esperienza più che ventennale, oggi sostituto procuratore della Repubblica al Tribunale di Campobasso e specialista in materia di intercettazioni. Suo, il recente volume “Come difendersi dalle intercettazioni” (Maggioli, 2012).


Il pm di Palermo Antonio Ingroia ha affermato che quello messo in atto da Panorama è un vero e proprio ricatto a Napolitano. Il direttore della rivista, Giorgio Mulè, ha ribaltato le accuse, difendendo l’operato del suo giornale come uno smascheramento dei tentativi di destabilizzazione al Colle, architettati da altri. Il Fatto invoca l’intervento dell’Ordine dei giornalisti…fino a che punto una simile guerra mediatica può influenzare le indagini di un caso che potrebbe segnare nella storia il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica?

Non conosco la vicenda di cui mi chiede se non per quello che, come la maggior parte delle persone, ho potuto apprendere dai quotidiani e dalla televisione. Non so neppure se le indagini – magari limitatamente a taluni aspetti – sono ancora in corso o sono definitivamente concluse; in quest’ultimo caso la diffusione mediatica delle notizie sarà ininfluente per l’esito dibattimentale atteso che i giudici  – se ci sarà un giudizio – valuteranno le prove offerte dall’accusa senza essere condizionati dal “clima” esterno; diversamente, per delle indagini in corso, non solo quella che lei definisce “guerra mediatica” ma la sola propalazione delle notizie è sicuramente pregiudizievole.


La ricostruzione del settimanale è stata attaccata da alcuni addetti ai lavori, tra cui quotidiani molto attenti alla cronaca giudiziaria come Repubblica e Il Fatto. Fino a dove si spinge, nei limiti della giustizia e del segreto istrutturio, il diritto di cronaca? La supposizione, le dietrologie, il chiacchericcio “interessato” rientrano nei canoni della deontologia professionale e nel diritto-dovere di informare?

Il diritto di cronaca, in relazione ad indagini ed a processi penali, trova la sua precisa regolamentazione nella disciplina codicistica del segreto processuale e della pubblicità degli atti. In particolare, la disciplina del “segreto” è contenuta nell’art. 329 del codice di procedura penale; quella in tema di “pubblicità” degli atti nell’art 114 del codice di rito. Durante la fase delle indagini preliminari sono coperti da una sorta di “segreto assoluto” gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari; per tali atti – in quanto segreti – il codice prescrive un divieto assoluto di pubblicazione. Tanto si ricava dalla disciplina degli artt. 329 e 114 c.p.p.; l’art. 329 comma 1 c.p.p. prevede che gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. L’art. 114 c.p.p., al comma 1, prevede il divieto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto. Gli atti portati a conoscenza dell’indagato, o meglio ancora “gli atti che l’indagato è messo in condizione di conoscere” non sono più coperti dal segreto. Tuttavia, il solo fatto che l’atto non sia più “segreto” non lo rende di per sé pienamente ostensibile; in questo caso, viene meno l’esigenza di tutela investigativa (essendo l’atto conosciuto), ma interviene la necessità sia di tutelare la riservatezza dei soggetti coinvolti sia il libero convincimento del giudice e quindi scatta un divieto relativo di pubblicazione riguardante l’atto nel suo aspetto integrale (totale o parziale), ma non nel suo contenuto (114 comma 2). In sostanza, mentre il contenuto di qualsiasi atto è sempre pubblicabile (purché non segreto) per poterne pubblicare il testo integrale (totale o parziale), occorre che l’atto in sé sia conosciuto al giudice o che il procedimento si sia comunque concluso. La disciplina a tutela del segreto investigativo e dei divieti di pubblicazione è accompagnata dalla previsione di specifiche sanzioni nel caso di inosservanza. Per quanto riguarda la tutela del segreto investigativo l’art. 326 c.p. prescrive che il pubblico ufficiale, o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni; se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.  Altre norme, invece, sono poste a tutela del divieto di pubblicazione. L’art 684 c.p. prevede che chiunque pubblichi, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258. Ancora, a tutela del divieto di pubblicazione è posto l’art. 115 c.p.p. in base al quale la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lett. b) costituisce illecito disciplinare. quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.Venendo, poi, all’ultima parte della sua domanda essa contiene in sè la risposta dato che, ovviamente le: “supposizioni, le dietrologie, il chiacchericcio interessato” sono cosa oggettivamente diversa dal diritto-dovere di informare e quindi dal diritto di cronaca.


E’ legittimo a suo avviso il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale? Ancora, la ricostruzione di Panorama attribuisce parole nient’affatto compiacenti di Napolitano verso la Procura di Palermo: il caso sta macchiando gli ultimi mesi del settennato? Ricordiamo che il Presidente della Repubblica è anche il capo del Csm…

Il conflitto di attribuzione è un istituto previsto da nostro ordinamento. Per il resto, come ho già detto, non conosco gli atti processuali nè i dettagli della vicenda e quindi non sono in grado di esprimere alcun giudizio; per il resto posso solo dare atto della mia sincera stima per i magistrati della Procura di Palermo e per il Capo dello Stato, in particolare per l’attuale Presidente, che sta svolgendo in maniera encomiabile il suo ruolo in un momento che credo essere tra i più difficili – per la grave crisi economica, politica e sociale – della recente storia repubblicana.


Le intercettazioni tra Nicola Mancino e il capo dello Stato sono state giudicate irrilevanti ai fini dell’inchiesta: perché, secondo lei, non sono state semplicemente distrutte e si è venuto a creare un caso mediatico, politico e istituzionale?

Le intercettazioni non sono state distrutte dalla Procura di Palermo semplicemente perchè quei magistrati non potevano assolutamente farlo. L’art. 271 comma 3 c.p.p. prevede che la distruzione delle intercettazioni “inutilizzabili” sia disposta dal giudice, mentre l’art. 269 comma 2 prevede che – fatta eccezione che per quelle intercettazioni che vanno distrutte ex art. 271 comma 3) – le registrazioni vanno conservate fino alla sentenza non più soggetta a impugnazione, ma gli interessati, a tutela della loro riservatezza, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione al giudice che deciderà in camera di consiglio nel contraddittorio dei soggetti interessati. La ratio della normativa e la necessità di ricorrere al giudice è evidente: in un processo di parti non può, la parte pubblica, prendere decisioni definitive rispetto ad elementi procedimentali che il difensore dell’indagato potrebbe ritenere utilizzabili e rilevanti per la strategia difensiva. La necessità che la decisione, circa la distruzione di intercettazioni, sia rimessa al giudice – il quale deve provvedere previo contraddittorio con gli interessati – è prevista anche dall’art. 6 della legge 1402003 (relativamente all’intercettazione casuale di un parlamentare effettuata nell’ambito di operazioni che hanno come destinatarie terze persone) ed anche dal d.l. 259/2006, convertito, con modificazioni, nella legge 281/2006, in tema diintercettazioni illegali” cioè per le intercettazioni abusive, realizzate illegalmente senza alcun controllo da parte dell’autorità giudiziaria, quindi oggettivamente e sicuramente illecite.


Di fronte alle polemiche di queste ore, rimontano le richieste di una nuova disciplina delle intercettazioni: ritiene che oggi ci sia un abuso di questo strumento in Italia? Ancora, c’è un eccesso di voyeurismo nelle fughe di notizie che spesso appaiono sui giornali?

Le intercettazioni sono uno strumento indispensabile per accertare diverse tipologie di reati. Se ripercorro i miei venti anni di attività come pubblico ministero posso affermare, con assoluta certezza, che molte indagini importanti – in tema di spaccio di stupefacenti, di furti in abitazione, di rapine, di abusi sessuali, di corruzione – hanno potuto avere un esito processuale positivo solo e soltanto perchè si è fatto uso delle intercettazioni. Ovviamente, poi, è il legislatore che stabilisce se dotare la magistratura penale di uno strumento per svolgere meglio il proprio compito, che è quello di accertare i reati ed individuarne gli autori; altrettanto ovviamente ogni “restrizione” di tale strumento avrà l’effetto di limitare, proporzionalmente, l’attività investigativa. Tanto premesso, non ritengo che oggi ci sia un “abuso” di tale strumento, se per abuso intendiamo un utilizzo in casi non consentiti dalla legge, mente vi è il problema della frequente divulgazione di notizie riservate, spesso estranee al merito dell’indagine e che sconfinano nel gossip e nel pettegolezzo. E’ questo, e non l’uso dello strumento captativo in quanto tale, che dovrebbe essere oggetto di un tempestivo intervento di riforma; occorre evitare che conversazioni riguardanti fatti del tutto estranei al processo – spesso concernenti situazioni affettive, relazionali, mere opinioni personali – possano essere divulgate e pubblicate. Inoltre, anche altri aspetti della disciplina andrebbero rivisitati definendo meglio alcuni presupposti (in tema di intercettazioni di persone diverse dall’indagato), ma anche ampliandone l’orizzonte applicativo; al riguardo, per esempio, sarebbe urgente definire i presupposti e le condizioni per le “intercettazioni di immagini” (l’attuale disciplina riguarda solo le “comunicazioni” in qualsiasi forma avvengano) non essendo tollerabile che raccapriccianti immagini di violenza e di abuso – magari poste in essere nei confronti di minori o di persone anziane – capate nel corso di intercettazioni audiovisive, non siano processualmente utilizzabili ove prive di contenuto comunicativo, ma espressione di una violenza fine a se stessa.


Qualcuno addita l’Associazione nazionale magistrati di essere un po’ troppo prudente in questi giorni di tempesta. Lei che ne pensa?

L’Anm è formata, ovviamente, da magistrati cioè da persone abituate, anche in virtù dell’attività che svolgono, a non esprimere giudizi se prima non conoscono tutti i dettagli della questione; a non giudicare di un indagine eo di un processo se prima non hanno letto tutti gli atti. Nel caso di specie, quindi, non posso che condividere la posizione assunta.

Francesco Maltoni

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento