Tagli alle auto di servizio: per molti ma non per tutti

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Le norme sul taglio dei costi delle autovetture di servizio sono rivolte esclusivamente allo Stato e agli enti nazionali e non “obbligano” le regioni e gli enti territoriali.

La sentenza n. 144/2012 della Corte costituzionale interviene sulla complessa e delicata tematica del bilanciamento tra autonomia finanziaria di regioni ed enti locali, da un lato, e, dall’altro, esigenze di contenimento e razionalizzazione della spesa di tutti gli enti istituzionali.

La vicenda questa volta riguarda la disciplina attraverso la quale la legge impone rigidi vincoli alle spese concernenti le cd autoblu.

In particolare l’articolo 2 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, prevede che «La cilindrata delle auto di servizio non può superare i 1600 cc.» (comma 1); che «le auto ad oggi in servizio possono essere utilizzate solo fino alla loro dismissione o rottamazione e non possono essere sostituite» (comma 3); che «con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, sono disposti modalità e limiti di utilizzo delle autovetture di servizio al fine di ridurne numero e costo» (comma 4).

La disciplina viene impugnata dalla Regione Liguria per violazione degli artt. 3, 97, 117, terzo, quarto e sesto comma, e 118 della Costituzione.

Il responso della Corte è chiaro ed in linea con la consolidata giurisprudenza in materia: il legislatore statale può legittimamente prescrivere agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio (ancorché si traducano in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti stessi), ma solo con disciplina di principio e modalità di coordinamento finanziario. Di conseguenza norme dettagliate, come quelle che prescrivono un limite di cilindrata delle auto di servizio e regole di dismissione e rottamazione delle auto preesistenti all’emanazione della norma, non possono essere imposte ad enti dotati di autonomia costituzionale.

E non importa se si tratta di norme dirette a conformare l’attività amministrativa ai principi di buona amministrazione ed efficienza – indefettibili anche per gli enti territoriali – mediante il contenimento di voci di spesa suscettibili di ridimensionamento qualitativo e quantitativo alla luce del momento di particolare congiuntura economica. Perché il principio del contenimento della spesa pubblica va contemperato con quello autonomistico, e di conseguenza lo Stato deve conseguire gli obiettivi di contenimento e razionalizzazione della spesa adoperando gli strumenti consentiti in un ordinamento cd multilevel.

In altri termini se l’obiettivo è condivisibile gli strumenti adottati per il suo conseguimento non sono legittimi.

In diverse pronunce, infatti, la Corte aveva già ribadito che il perseguimento “degli obiettivi complessivi di finanza pubblica, connessi anche ai vincoli europei” legittima l’esercizio da parte dello stato di penetranti poteri di indirizzo, di conformazione , di monitoraggio, controllo e vigilanza dei sistemi finanziari regionali e locali, e anche di poteri sanzionatori. Ma la legge statale può stabilire solo un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa», e non deve incidere sulle scelte autonome di regioni ed enti locali. Su queste basi sono state dichiarate illegittime le disposizioni statali che stabilivano vincoli puntuali a specifiche voci di spesa quali quelle per viaggi aerei o acquisti di beni e servizi, oppure individuavano gli specifici strumenti attraverso i quali le regioni e gli enti locali erano chiamate a conseguire i risparmi prescritti (ad esempio attraverso l’uso della posta elettronica in luogo della corrispondenza cartacea).

Di conseguenza, per evitare che gli eccessi di spesa o di indebitamento di qualche ente possano pregiudicare l’equilibrio della finanza pubblica il legislatore statale, nell’esercizio del potere di coordinamento, può imporre vincoli alle politiche di bilancio di regioni ed enti locali, ma deve esercitare i suoi poteri “in modo consono all’esistenza di sfere di autonomia costituzionalmente garantite”, lasciando a regioni ed enti locali la possibilità di individuare le misure necessarie a conseguire i risparmi di spesa. In altri termini la legge statale può imporre alle autonomie territoriali quanto risparmiare, ma non come farlo. A meno che non si tratti di porre un freno a macrovoci di spesa, di consistenza “non trascurabile”, che costituiscono frequenti e rilevanti cause del disavanzo pubblico, come ad esempio la spesa per il personale e quella per consumi intermedi.

Così lo stato, ad esempio, può imporre vincoli alla spesa corrente (cioè ai costi di funzionamento) o a quella per il personale, ma non può stabilire limiti puntuali a specifiche voci di spesa come quelle per viaggi aerei, per assunzioni a tempo indeterminato, per studi e incarichi di consulenza, missioni all’estero, rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni; può imporre un tetto alla spesa per consumi intermedi (cioè il valore complessivo di beni e servizi), ma non può stabilire il prezzo dei singoli acquisti di beni e servizi di regioni o enti locali, oppure imporre la riduzione della cilindrata media delle autovetture di servizio, o l’uso della posta elettronica in luogo della corrispondenza cartacea e dei servizi VoIP in luogo delle ordinarie comunicazioni telefoniche (sent. 417/2005 e 297/2009).

Su queste basi la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. , ma di fatto accoglie le istanze sottese al ricorso della Regione Liguria che aveva impugnato le norme. La questione è infondata perché le norme non si applicano a regioni ed enti locali, e quindi non violano la loro autonomia finanziaria.

Dario Immordino

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