Se 25 anni vi sembran troppi…

Redazione 27/03/12
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L’articolo 630 del codice penale che punisce il sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione è illegittimo nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.

E’ quanto afferma la Corte costituzionale con la sentenza del 23 marzo 2011 n. 68, nella quale sancisce che anche l’autore del sequestro a scopo di estorsione da oggi beneficia dell’attenuante del fatto commesso con lieve entità.

A sollevare la questione di legittimità costituzionale, il giudice per le indagini preliminari di Venezia, nel procedimento penale riguardante tre uomini, imputati di sequestro di persona a scopo di estorsione per aver trattenuto per quattro ore in casa una persona ritenuta vicina ad uno spacciatore, loro debitore di una somma di denaro. L’uomo venne poi liberato in seguito all’intervento della polizia.

A parere del gip  la condotta dei tre balordi sarebbe da considerarsi “un’iniziativa estemporanea, attuata senza armi, ben lontana dai sequestri estorsivi perpetrati da pericolose organizzazioni criminali, con episodi di efferata crudeltà ai danni delle vittime e richieste di ingenti riscatti”: un fenomeno che ebbe uno “straordinario incremento negli anni 1970-’80” e che lo Stato pensò di contrastare, dal punto di vista preventivo, con “un eccezionale inasprimento della risposta punitiva“, innalzando la pena minima da 8 a 25 anni di reclusione.

L’applicazione di una norma di siffatto tenore, e della consequenziale pena, anche a fatti di lieve entità, senza prevedere un’attenuante speciale, contrasterebbe, secondo il gip veneto, tra l’altro con il principio di ragionevolezza previsto dalla Costituzione.

Ci troveremmo di fronte dunque ad una disparità di trattamento rispetto alla figura del sequestro a scopo di terrorismo o eversione, contemplato fra i delitti contro la personalità dello Stato, alla quale invece è estensibile l’attenuante di cui all’art. 311 c.p.; tale reato è tradizionalmente ritenuto ben più grave della fattispecie, per così dire, gemella, del sequestro a scopo di estorsione, annoverata fra i reati contro la persona.

Per il giudice a quo, se una pena edittale così elevata poteva avere un senso durante i tragici “anni di piombo”, tuttavia oggi si fatica a rinvenirne una “ratio”: sono frequenti infatti al giorno d’oggi gli episodi di sequestro-lampo, senza grande dispiegamento di mezzi; e si tratta, in ogni caso, di fatti di reato in cui l’illegalità è data dall’ingiustizia del profitto perseguito dall’agente, dato che la pretesa che egli mira a conseguire è del tutto sfornita di tutela legale.

Considerato il mutamento, la risposta più coerente da parte dell’ordinamento dovrebbe dunque essere quella di estendere l’attenuante del fatto di lieve entità prevista con riferimento al sequestro per motivi di terrorismo o eversione, anche al sequestro a scopo di estorsione.

Un punto di vista pienamente condiviso dalla Corte Costituzionale, che sulla diversità delle due fattispecie criminose precisa che: “A fianco della comune lesione della libertà personale del sequestrato, il sequestro terroristico o eversivo offende, […] secondo una corrente lettura, l’ordine costituzionale; il sequestro estorsivo attenta, invece, al patrimonio”. Per cui “non può esservi comunque alcun dubbio in ordine alla preminenza del primo dei beni sopra indicati rispetto al secondo, nella gerarchia costituzionale dei valori”. Dunque, una simile considerazione “se giustifica la sottoposizione del sequestro terroristico o eversivo a uno “statuto” in generale più severo di quello proprio del sequestro estorsivo […] rende, di contro, manifestamente irrazionale – e dunque lesiva dell’articolo 3 Cost. – la mancata previsione, in rapporto al sequestro di persona a scopo di estorsione, di una attenuante per i fatti di lieve entità, analoga a quella applicabile alla fattispecie “gemella” che, coeteris paribus, aggredisce l’interesse di rango più elevato”.

Secondo i giudici costituzionali inoltre questo comporterebbe “anche una concorrente violazione dell’articolo 27, terzo comma, Cost., nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 Cost., del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso, sul rilievo che una pena palesemente sproporzionata – e, dunque, inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa (sentenze n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993)”.

 Qui il testo integrale della sentenza n. 68/2012 della Corte Costituzionale

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