Quote rosa, la sentenza del TAR Lombardia

Redazione 14/02/11
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Il Tar Lombardia, con sentenza della prima sezione, n. 354/2011, depositata il 4 febbraio scorso, ha confermato le nomine, da parte del Presidente della Regione Lombardia, di sedici assessori della Giunta, di cui quindici di sesso maschile e uno di sesso femminile.

I ricorrenti lamentavano la “violazione dei principi di democrazia paritaria fra uomini e donne nella vita sociale, culturale, economica e politica e dunque anche nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, nonché delle disposizioni normative poste a garanzia dell’equilibrio tra i sessi tra i componenti degli organi di governo”.

Il TAR ha ritenuto che “in considerazione dello stadio in cui versa attualmente il processo di promozione dell’effettiva democrazia paritaria tra uomini e donne nell’accesso agli uffici pubblici ed alla luce del quadro normativo allo stato vigente, non può pervenirsi a una dichiarazione di illegittimità della formazione della Giunta regionale siccome composta da un solo assessore di sesso femminile … pur nella consapevolezza che il processo di promozione dell’equilibrio tra i sessi nella rappresentanza politica è, allo stato, solo appena avviato“.

Si riporta, di seguito, la motivazione della sentenza:

(…)

“Il Collegio deve, al riguardo, premettere che il modello delineato dall’Assemblea Costituente, così come, poi, modificato nel corso degli anni, pur postulando il principio generale di eguaglianza sostanziale fra uomini e donne nella vita sociale, culturale, economica e politica e dunque anche nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, non garantisce la composizione equilibrata di entrambi i sessi negli organi collegiali.

Tanto si ricava, essenzialmente, dai risultati cui è giunta la Consulta all’esito dello scrutinio di molteplici fattispecie sottoposte alla sua attenzione e dalle decisioni che ne sono scaturite.

Ci si vuol riferire, in particolare, alla sentenza 12 settembre 1995, n. 422, in cui la Corte ha affermato il contrasto con i parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 51 della norma di legge che imponga nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati.

Secondo il pensiero dei Giudici costituzionali, il Legislatore è certamente legittimato ad adottare misure legislative, volutamente diseguali, per eliminare situazioni di inferiorità sociale ed economica, o, più in generale, per compensare e rimuovere le disuguaglianze materiali tra gli individui, quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali, comprese quelle che, in vario modo, ha adottato per promuovere il raggiungimento di una situazione di pari opportunità fra i sessi (legge 10 aprile 1991, n. 125, recante “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo – donna nel lavoro”; legge 25 febbraio 1992, n. 215, recante “Azioni positive per l’imprenditoria femminile”); tali misure legislative non possono, tuttavia, incidere direttamente sul contenuto stesso di quei medesimi diritti, rigorosamente garantiti in egual misura a tutti i cittadini in quanto tali. E’ stato, infatti, statuito che “in tema di diritto all’elettorato passivo, la regola inderogabile stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell’art. 51, è quella dell’assoluta parità, sicché ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato”.

Tali misure non si proporrebbero, invero, di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì costituirebbero in realtà nuove, inaccettabili discriminazioni come rimedio a quelle in passato patite, attribuendo loro direttamente quei risultati: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non verrebbe rimossa, ma costituirebbe solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso, risultato che l’art. 51 della Costituzione espressamente esclude.

A parere della Consulta le “misure quali quella in esame si pongono irrimediabilmente in contrasto con i principi che regolano la rappresentanza politica, quali si configurano in un sistema fondato sulla democrazia pluralistica, connotato essenziale e principio supremo della nostra Repubblica.

È opportuno, infine, osservare che misure siffatte, costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi pervenire con un’intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l’effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare”.

La Corte ha riconosciuto, dunque, in questo campo, l’impraticabilità della via di soluzioni legislative, spettando, invece, al Legislatore individuare interventi di altro tipo per favorire l’effettivo riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, restando, comunque, escluso che sui principi di eguaglianza contenuti nell’art. 51, primo comma, possano incidere direttamente, modificandone i caratteri essenziali, misure dirette a raggiungere i fini previsti dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione.

Particolare attenzione merita, poi, a parere del Collegio la decisione della Corte costituzionale 13 febbraio 2003, n. 49 , in quanto espressione di una visione in un certo senso in evoluzione rispetto a quella appena esaminata.

La situazione, secondo quanto si legge nella pronuncia, deve, infatti, essere valutata anche alla luce di un quadro costituzionale di riferimento medio tempore evolutosi rispetto a quello in vigore all’epoca della decisione n. 422/1995.

La legge costituzionale n. 2 del 2001, integrando gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata, ha, infatti, espressamente attribuito alle leggi elettorali regionali il compito di promuovere “condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali” proprio “al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi”.

Le nuove disposizioni costituzionali (cui si aggiunge l’analoga previsione dell’art. 117, settimo comma, della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001) hanno, dunque, posto esplicitamente l’obiettivo del riequilibrio tra donne e uomini e hanno stabilito come doverosa l’azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni, riferendo specificamente alla legislazione elettorale il compito di perseguire la finalità della “parità effettiva” fra uomini e donne anche nell’accesso alla rappresentanza elettiva, il che è parso positivamente apprezzabile dal punto di vista costituzionale.

“La misura disposta può senz’altro ritenersi una legittima espressione sul piano legislativo dell’intento di realizzare la finalità promozionale espressamente sancita dallo statuto speciale in vista dell’obiettivo di equilibrio della rappresentanza”.

Anche in tale decisione, che ha in ogni caso esclusivamente ad oggetto l’accesso alle consultazioni elettorali e dunque attiene alla formazione delle liste da parte dei partiti, si precisa che il modello non ha valenza costrittiva, ma solo di promozione dell’auspicabile parità fra i sessi.

Di tutto rilievo appare, da ultimo, la sentenza 14 gennaio 2010, n. 4, emessa successivamente alla modifica dell’art. 51 della Costituzione con la Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, nella quale era stata sottoposta allo scrutinio dei Giudici Costituzionali la legge della Regione Campania 27 marzo 2009, n. 4 – prescrivente l’obbligo, nel caso di indicazione di due preferenze per l’elezione alla carica di Consigliere regionale, di indicarle di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda preferenza -; anche in questa occasione è stato fermamente ribadito che il modello costituzionale consiste in una misura di retta promozione e non già di una cogente prescrizione.

In ordine ai limiti posti dalla giurisprudenza costituzionale all’introduzione di strumenti normativi specifici per realizzare il riequilibrio tra i sessi nella rappresentanza politica, la Corte trae coerenti conseguenze, chiarendo, innanzitutto, che la norma regionale contestata non è in alcun modo idonea a prefigurare un risultato elettorale o ad alterare artificiosamente la composizione della rappresentanza consiliare, trattandosi, quindi, di una misura promozionale, ma non coattiva; inoltre, che non può essere considerata lesiva della stessa libertà la condizione di genere cui l’elettore campano viene assoggettato, nell’ipotesi che decida di avvalersi della facoltà di esprimere una seconda preferenza: si tratta, infatti, di una facoltà aggiuntiva, che allarga lo spettro delle possibili scelte elettorali – limitato ad una preferenza in quasi tutte le leggi elettorali regionali – introducendo, solo in questo ristretto ambito, una norma riequilibratrice volta ad ottenere, indirettamente ed eventualmente, il risultato di un’azione positiva; tale risultato non sarebbe, in ogni caso, effetto della legge, ma esclusivamente delle libere scelte degli elettori, cui si attribuisce uno specifico strumento utilizzabile a loro discrezione.

I diritti fondamentali di elettorato attivo e passivo rimangono dunque inalterati; vi è solo un’eguaglianza di opportunità particolarmente rafforzata da una norma che promuove, ma non induce coattivamente, il riequilibrio di genere nella rappresentanza consiliare.

Concludono i Giudici statuendo che: “quello previsto dalla norma censurata non è un meccanismo costrittivo, ma solo promozionale, nello spirito delle disposizioni costituzionali e statutarie …”.

Paiono, poi, rafforzare tale interpretazione le molteplici pronunce della Corte costituzionale che, in varie circostanze, hanno affermato la natura non precettiva di alcune disposizioni contenute negli Statuti delle regioni, cui pure i ricorrenti hanno fatto puntuale riferimento nelle loro argomentazioni.

Particolarmente significative, al riguardo, paiono le decisioni nn. 378 e 379 del 6 dicembre 2004, nelle quali la Consulta ha ricordato che negli statuti regionali si rinvengono assai spesso indicazioni di obiettivi prioritari dell’attività regionale, affermando che: “dopo aver riconosciuto la possibilità di distinguere tra un contenuto “necessario” ed un contenuto “eventuale” dello statuto (cfr. sentenza n. 40 del 1972), si è ritenuto che la formulazione di proposizioni statutarie del tipo predetto avesse principalmente la funzione di legittimare la Regione come ente esponenziale della collettività regionale e del complesso dei relativi interessi ed aspettative. Tali interessi possono essere adeguatamente perseguiti non soltanto attraverso l’esercizio della competenza legislativa ed amministrativa, ma anche avvalendosi dei vari poteri, conferiti alla Regione stessa dalla Costituzione e da leggi statali, di iniziativa, di partecipazione, di consultazione, di proposta, e così via, esercitabili, in via formale ed informale, al fine di ottenere il migliore soddisfacimento delle esigenze della collettività stessa. In questo senso si è espressa questa Corte, affermando che l’adempimento di una serie di compiti fondamentali «legittima, dunque, una presenza politica della regione, in rapporto allo Stato o anche ad altre regioni, riguardo a tutte le questioni di interesse della comunità regionale, anche se queste sorgono in settori estranei alle singole materie indicate nell’articolo 117 Cost. e si proiettano al di là dei confini territoriali della regione medesima» (sentenza n. 829 del 1988).

Il ruolo delle Regioni di rappresentanza generale degli interessi delle rispettive collettività, riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale e dalla prevalente dottrina, è dunque rilevante, anche nel momento presente, ai fini «dell’esistenza, accanto ai contenuti necessari degli statuti regionali, di altri possibili contenuti, sia che risultino ricognitivi delle funzioni e dei compiti della Regione, sia che indichino aree di prioritario intervento politico o legislativo» (sentenza n. 2 del 2004); contenuti che talora si esprimono attraverso proclamazioni di finalità da perseguire. Ma la sentenza ha rilevato come sia opinabile la “misura dell’efficacia giuridica” di tali proclamazioni; tale dubbio va sciolto considerando che alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica, collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello statuto.

D’altra parte, tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti delle futura disciplina legislativa, ma soprattutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti.

Qui però non siamo in presenza di Carte costituzionali, ma solo di fonti regionali “a competenza riservata e specializzata”, cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque «essere in armonia con i precetti ed i principi tutti ricavabili dalla Costituzione» (sentenza n. 196 del 2003).

Dalle premesse appena formulate sul carattere non prescrittivo e non vincolante delle enunciazioni statutarie di questo tipo, deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa”.

Ne consegue, pertanto, che le norme Costituzionali delle quali gli istanti deducono la violazione (artt. 3, 51 e 117), unitamente alle disposizioni statutarie della Regione Lombardia, pure invocate a sostegno delle proprie censure, e all’art. 1 del D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, non autorizzano una dichiarazione di illegittimità dei provvedimenti oggetto della presente impugnazione, anche in considerazione dell’indiscutibile natura fiduciaria delle nomine di cui si discute.

Dal disposto letterale dell’art. 11, comma 3, dello Statuto della regione Lombardia, in particolare, secondo il quale: “La Regione promuove il riequilibrio tra entrambi i generi negli organi di governo della Regione e nell’accesso agli organi degli enti e aziende dipendenti e delle società a partecipazione regionale per i quali siano previste nomine e designazioni di competenza degli organi regionali” risulta infatti, confermata la succitata interpretazione fornita dalla Consulta del modello come meramente promozionale.

Osserva, in ogni caso, il Collegio, che tale modello, la cui evoluzione in senso rafforzativo risulta evidenziata proprio in virtù della recente introduzione nel panorama normativo di disposizioni di tale portata (lo statuto della Lombardia è stato approvato con legge regionale 30 agosto 2008, n. 1, mentre la modifica dell’art. 1 del D.lgs. 11 aprile 2006, n. 25 sulle pari opportunità risale solo al 25 gennaio 2010), dimostri la particolare attenzione dedicata al tema dalle Istituzioni.” (presidente Francesco Mariuzzo, estensore Elena Quadri, altro componente Hadrian Simonetti).

(…)

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