Se litigare sui partiti è questione di democrazia (e di simboli)

Redazione 15/04/15
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Si sprecano le scintille tra Raffaele Fitto e i dirigenti “ufficiali” di Forza Italia in Puglia. Le elezioni regionali sono state una gigantesca scintilla, che ora però fa deflagrare problemi con radici molto più profonde. E non è solo un problema di liste e candidati ma, alla radice, di democrazia all’interno dei partiti. Quella democrazia che, in teoria, dovrebbe essere pretesa dall’art. 49 della Costituzione, quando fissa il diritto dei cittadini di associarsi in partiti «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

In teoria, si diceva: in pratica, gli stessi partiti non hanno mai voluto regolare con legge quella “democrazia interna”, lasciando all’art. 49 il compito di presidiare (solo) i rapporti tra partiti. Un po’ perché qualcuno temeva di essere fatto fuori dal gioco politico, attraverso il bollo di “antidemocraticità” (vedi alle voci «comunisti» e «centralismo democratico»); un po’ perché, in fondo, evitare che i giudici o altri organi poco controllabili mettessero gli occhi e le mani nelle dinamiche interne alle forze politiche faceva comodo a tutti. Oggi a questo partito, domani a quella corrente o a quel notabile.

Qualcosa – giusto qualcosina – è cambiato con la legge n. 13/2014, che ha convertito il d.l. n. 149/2013 (quello che ha cambiato il sistema di provvidenze pubbliche alla politica, ma ha anche dettato un contenuto minimo per gli statuti dei partiti) e probabilmente cambierà a Italicum approvato, ma ci vorrà ben altro per far cessare gli scontri interni ai partiti, legati all’applicazione delle regole che gli stessi soci si sono dati (o, per lo meno, da loro accettate all’atto dell’iscrizione). Chi ha ragione dunque tra i litiganti? Il simbolo di un partito alle elezioni spetta a chi è ufficialmente legittimato o a chi gode di più consenso? E ci vuole un giudice per stabilirlo? Se un partito – come Forza Italia, ma non solo – resta “in sonno” per anni e viene riattivato, il suo statuto è illegittimo se non viene ratificato da un nuovo congresso (linea Fitto) o bastano i voti delle assemblee congressuali precedenti?

Il problema, lo si vede, ha tante facce, tutte sconnesse: sotto elezioni il gioco si complica ancora di più. La storia, del resto, conosce illustri precedenti: giusto vent’anni fa, alla vigilia delle regionali, gli occhi erano puntati sullo scontro fratricida che si consumava in piazza del Gesù. Il segretario del Partito popolare italiano Rocco Buttiglione, dopo aver assicurato che non avrebbe stretto alleanze con partiti “estremi”, si accordò con il Polo di centrodestra (Alleanza nazionale compresa) e annunciò che, se nel Ppi gli avessero votato contro, si sarebbe dimesso. In consiglio nazionale andò sotto, ma lui resto al suo posto e contestò il voto: i consiglieri a lui ostili lo sostituirono con Gerardo Bianco, il sostituito lo ritenne illegittimo così iniziò una sequela interminabile di azzeramenti, espulsioni e sgambetti reciproci. Dovette intervenire il tribunale di Roma: il giudice annullò una sequenza di atti contrari allo statuto e disse che Buttiglione, avendo perso la conta interna, doveva sposare la linea della maggioranza, ma aveva il diritto di non dimettersi e restare segretario (e, dunque, di stabilire chi alle elezioni poteva usare lo scudo crociato). La decisione peraltro non fermò la guerra, che proseguì altri tre mesi, fino a quando le due fazioni non certificarono la scissione, dividendosi segni distintivi, testate e dipendenti.

Di storie come questa, a ben guardare, l’ultimo quarto di secolo della politica italiana è pieno: possono materializzarsi a ridosso delle elezioni, ma più spesso capita durante e dopo i congressi. Perché capita che le regole non siano pienamente rispettate e, in ogni caso, se i vincitori cambiano linea, spesso chi perde si sente tradito e non ci sta: pur di cercare di mantenere nome ed emblema per sé, ricorre alla carta bollata. Molte di queste vicende sono raccolte dall’anno scorso in “Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male” (Aracne editrice). Lo ha scritto Gabriele Maestri, dottore di ricerca in Teoria dello Stato, giornalista e collaboratore di LeggiOggi: alla materia aveva già dedicato nel 2012 una monografia per Giuffrè (I simboli della discordia, nome che poi è passato al suo blog), ma questa volta ha deciso di non raccontare gli scontri tra partiti e fazioni ai soli addetti ai lavori, con un taglio più divulgativo che usa già da tre anni nel suo sito, aggiornato di continuo.

Dalle spaccature epiche che hanno concluso le avventure del Pci e del Msi alle frequenti liti (degenerate in scontri fisici) in casa socialista, fino alle traversie dello scudo crociato (sempre più polverizzato) e alle numerose incursioni nei regni vegetale e animale, il libro racconta una storia “litigiosa” della politica italiana, nel senso dei tanti contenziosi che hanno costellato la vita di grandi partiti come di piccole formazioni, i cui emblemi sono stati contesi a dispetto delle percentuali da prefisso telefonico.
Se davvero Fitto porterà in tribunale l’intera macchina di Forza Italia, contestando alla radice l’illegittimità delle stesse norme statutarie (oltre che delle cariche apicali), un’altra pagina importante dovrà essere scritta. Ma, viste le premesse e il clima politico, non sarà l’ultima. C’è da giurarlo.

9788854871090

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