Grillo, la democrazia ed il vincolo di mandato

Redazione 05/03/13
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Il nuovo Parlamento (quello più giovane e con il maggior numero di donne della storia dell’Italia repubblicana) vede una nutrita pattuglia di esponenti del Movimento 5 Stelle. Volti sconosciuti per la politica italiana, forze giovani sulle quali vengono riposte aspettative altissime da parte degli elettori del Movimento e sulle quali, proprio per questo, il rischio di “scilipotizzazione” (di progressiva dispersione, cioè, in gruppi parlamentari diversi rispetto a quello nelle cui file sono stati eletti) avrebbe una ricaduta ancora più pesante.

L’ultima provocazione che il leader del M5S, Beppe Grillo, lancia dal suo popolarissimo blog è volta proprio a scongiurare il rischio che il virus del “trasformismo” (male antico della nostra democrazia) finisca per contagiare anche i “grillini” che andranno a sedere a Montecitorio e Palazzo Madama. L’obiettivo contro cui scagliare gli strali diventa quindi l’articolo 67 della nostra Costituzione, che testualmente recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

L’articolo rappresenta una garanzia posta a difesa della libertà di voto di ogni singolo parlamentare della Repubblica che, una volta eletto, non può essere costretto in alcun modo da nessun soggetto – che sia un Presidente del Consiglio, un Capo dello Stato, una segreteria di partito, un magistrato o fosse anche un “tribunale del popolo” di totalitaria memoria – a votare in maniera difforme da quella che gli viene suggerita dalla propria coscienza.

I nostri Padri Costituenti, che scrissero questo articolo nell’immediato secondo dopoguerra, avevano ben presente l’esperienza appena (disastrosamente) conclusasi del Ventennio fascista. Escludendo che un membro del Parlamento potesse essere obbligato a votare sempre e comunque secondo la linea del partito nelle cui fila era stato eletto, pena la sua decadenza dalla carica, avevano voluto riaffermare l’assoluta indipendenza delle convinzioni personali dell’eletto rispetto ad ogni forma di coercizione esterna: si tratta, a ben considerare, di un’altissima difesa del valore e della dignità della coscienza umana e, al tempo stesso, un baluardo contro la formazione delle dittature.

Questo il principio, l’ideale. La realtà della politica italiana è sempre stata, invece, molto più “terra terra”. Siamo purtroppo, e non da oggi, la terra del “trasformismo”, che a fine ‘800 istituzionalizzò una pratica di “cambiamento di casacca” del resto molto più antica che trova le sue origini nella nostra stessa storia nazionale: quella di un Paese diviso per quasi 1.500 anni.

Ora, la domanda è: Padri Costituenti della levatura morale di De Gasperi, Calamandrei, Terracini, Parri, Einaudi (per citare solo alcuni dei più conosciuti) potevano prevedere il progressivo futuro decadimento della classe politica italiana? Potevano prevedere Tangentopoli e la fine rovinosa della Prima Repubblica? Potevano prevedere l’attuale agonia della Seconda Repubblica, travolta da una serie impresionante di scandali senza termine? Potevano prevedere l’uso irresponsabile e disinvolto del denaro pubblico da parte dei parlamentari eletti, talmente diffuso da non creare quasi più nemmeno vergogna ed imbarazzo nelle persone indagate e condannate? La disonestà (sia pur mascherata da “furbizia”) elevata a valore “necessario”? Potevano prevedere, infine, l’aspetto forse più detestabile tra tutti, cioè la compravendita dei voti?

Io credo che la risposta sia sì. Gli estensori della Carta Costituzionale avevano, se non previsto il futuro in queste esatte forme specifiche, quanto meno messo in conto che tutto questo potesse presto o tardi accadere. Magari non con simili proporzioni, ma sapevano bene che nessun sistema politico, nemmeno quello democratico, può cambiare l’animo umano (come lo stesso Grillo afferma).

È un errore derubricare la dura provocazione di Beppe Grillo, per cui “l’articolo 67 della Costituzione consente la libertà più assoluta ai parlamentari che possono fare, usando un eufemismo, il c…. che gli pare”, sotto la semplicistica etichetta del “populismo”. Grillo dà voce, in maniera eclatante ma autentica, ad un malessere diffuso, a un disagio profondo che covava da anni in milioni di cittadini italiani e che solo i ciechi potevano non vedere. Il Movimento 5 Stelle ha saputo interpretare questo stato d’animo e la pressante richiesta di moralizzazione della politica ad esso collegata meglio di qualunque altro partito della Repubblica.

Il diritto dei cittadini ad essere governati è non meno importante di quello ad essere ben governati.

Il rischio, come sempre in simili situazioni, è quello di passare da un estremo all’altro. Poiché, quando Grillo afferma che i nostri rappresentanti (o, per dirla con le parole del leader 5 Stelle, i nostri “dipendenti”) in Parlamento non devono essere liberi rispetto al mandato che li ha portati ad essere deputati e senatori, l’interrogativo di fondo che si pone è semplice ma radicale al tempo stesso: meglio una democrazia malata e corrotta o una dittatura di persone oneste?

La risposta, si dirà, sta nel mezzo: meglio una democrazia retta da persone oneste.

Al mondo solo quattro Paesi democratici prevedono il vincolo di mandato per gli eletti al Parlamento: Portogallo, Panama, India e Bangladesh. E, come si vede, non sono tra le democrazie più evolute e meglio governate.

Il discorso che va fatto è piuttosto quello della responsabilità personale di fronte agli eletti (che con il Porcellum è andata completamente perduta), dell’opportunità politica di scelte prese in contrasto rispetto a quelle del gruppo parlamentare di appartenenza.

Il problema, insomma, più che costituzionale, è politico. Serve rifondare l’etica pubblica ispirandola a valori di coerenza e lealtà che contemperino quello – insopprimibile – della libertà di coscienza.

Un percorso certamente non facile, ma che si dovrà pur iniziare a percorrere per dare una risposta “umanistica” alla crisi del nostro Paese.

Redazione

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