Concorso esterno in associazione mafiosa: un reato in cui nessuno crede più?

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Bisogna attendere le motivazioni della sentenza, certamente, per conoscere nel dettaglio gli aspetti giuridici esaminati dalla Cassazione.

Né ci interessa entrare nel merito della questione oggetto del processo, neanche sugli aspetti tecnici e procedurali, che pure sono ampiamente presenti nell’intervento della Procura.

Ma la sentenza della Cassazione, che ha annullato con rinvio la sentenza di secondo grado a carico del sen. Dell’Utri, merita attenzione innanzitutto per gli aspetti relativi alla peculiare fattispecie di reato del “concorso esterno in associazione mafiosa” su cui si dibatte ormai da oltre venti anni.

Il dibattito è alimentato in particolare da quanto affermato nelle conclusioni del procedimento davanti alla Suprema Corte dal sostituto procuratore della Cassazione Francesco Iacoviello: “Il concorso esterno in associazione mafiosa – secondo Iacoviello – è diventato un reato autonomo in cui nessuno crede”.

Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa si realizza quando una persona, senza essere stabilmente inserita nella struttura di un’ organizzazione mafiosa, svolga un’attività, anche di semplice intermediazione, che consista in un contributo per sostenere e raggiungere le finalità dell’organizzazione criminale.

Il concorso esterno in associazione mafiosa non è espressamente previsto come delitto autonomo dal codice penale.

E’ una fattispecie riconosciuta in numerose sentenze in applicazione del principio del concorso di persone nel reato, previsto dall’art.110 del codice penale, e la fattispecie specifica dell’associazione a delinquere di stampo mafioso prevista dall’art. 416 bis.

Sin dall’inizio è stata oggetto di un aspro dibattito dottrinale e di svariate pronunce giurisprudenziali, fra chi ne ha sempre escluso la configurabilità e chi l’ha ritenuta ammissibile sul piano giuridico.

Negli atti del maxi processo contro la mafia, istruito dai giudici Falcone e Borsellino, emerge chiaramente la posizione dei due magistrati secondo i quali la figura del concorso esterno è la figura più idonea per colpire l’area grigia della cosiddetta contiguità mafiosa.

La controversia e’ stata poi oggetto di pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

La Corte Suprema ha stabilito che il concorso esterno nel delitto associativo riguarda ”quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche limitatamente ad un determinato settore, onde poter conseguire i propri scopi” (Cass. Sezioni Unite Penali, 5 ottobre 1994).

E’, pertanto, necessario non solo che il ”concorrente esterno” abbia tenuto una condotta chiaramente espressiva della sua disponibilità a partecipare all’associazione, ma anche che abbia agito con la coscienza e la volontà di concorrere alla realizzazione del particolare programma delinquenziale.

Se mancano queste condizioni – e’ stato stabilito – le attività di semplice supporto, agevolazione, fiancheggiamento, compartecipazioni nei singoli reati non possono ritenersi un concorso esterno all’ associazione, ma devono essere diversamente qualificate dal punto di vista penale.

Si è sempre dibattuto sulla configurabilità di un concorso eventuale nel reato associativo da parte di soggetti che pur non facendo parte dell’associazione mafiosa, comunque svolgono un’attività di supporto all’associazione stessa, intrattengono dei rapporti di collaborazione più o meno intensi, contribuendone al mantenimento in vita o al suo rafforzamento.

I casi esemplificativi a cui normalmente si fa riferimento sono quelli relativi al politico, al libero professionista (medico, avvocato, bancario, ecc. ), all’imprenditore che, pur non essendo formalmente affiliati alla organizzazione criminosa o comunque non organici, intrattengono dei rapporti con l’associazione che sono, vantaggiosi sia per l’associazione stessa che per il soggetto esterno a questa.

Successivamente, con un’altra sentenza del 2005 (sentenza Mannino), le sezioni unite penali della Cassazione hanno affrontato nuovamente il tema della ”partecipazione ad associazione mafiosa” e del ”concorso esterno in associazione mafiosa”.

Si definisce ‘partecipe‘ – hanno specificato i giudici – colui che risulta inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, ”da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico”.

Risponde di concorso esterno in associazione mafiosa il soggetto che, pur non inserito stabilmente nella struttura organizzativa del sodalizio e privo dell”affectio societatis”, fornisce tuttavia ad essa un concreto, specifico, consapevole, volontario contributo, sempre che questo esplichi una effettiva rilevanza causale e cioè si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione o di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale, e quindi per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto che nella specie è costituito dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dal l’esistenza e dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso.

La Corte ha precisato altresì che sul piano dell’accertamento della causalità non è sufficiente una valutazione “ex ante” del contributo concorsuale, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, ma è necessario un apprezzamento “ex post“, in esito al quale sia dimostrato l’effettivo nesso condizionalistico tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato, come storicamente verificatosi hic et nunc, con tutte le caratteristiche essenziali connesse alla dimensione plurisoggettiva e associativa dell’evento lesivo.

Ai fini della configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa sul piano dell’elemento soggettivo occorre dimostrare che il soggetto sia consapevole dei metodi e dei fini dell’associazione mafiosa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovessero nel loro interno) e dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione, talché egli «sa» e «vuole» che il suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso.

È configurabile il concorso esterno nel reato dì associazione di tipo mafioso nell’ipotesi di scambio elettorale politico mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio dell’associazione nella competizione elettorale, si impegna ad attivarsi una volta eletto a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente inserito in esso, a condizione che:

a) gli impegni assunti dal politico, per l’affidabilità dei protagonisti dell’accordo, per i caratteri strutturali dell’associazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della concretezza;

b) all’esito della verifica probatoria “ex post” della loro efficacia causale, risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali.

La recente sentenza Dell’Utri, anche prima del deposito della motivazione, ha riaperto l’aspro dibattito sull’argomento.

E’ chiaro adesso, che al di là della consueta ed inevitabile sterile polemica politica sull’argomento, che si ripete puntualmente dopo ogni sentenza del genere che vede coinvolti esponenti politici di primo piano, è necessario ed urgente colmare il vuoto normativo e stabilire con chiarezza quali comportamenti, tenuti da chi non è associato alla mafia, costituiscono un contributo all’organizzazione mafiosa penalmente rilevante.

Ed è una chiarezza che non può continuare ad essere affidata soltanto alle pronunce giurisprudenziali che meritoriamente hanno, con il ricorso a tale fattispecie, ottenuto risultati altrimenti non raggiungibili con il rischio poi di vedere vanificati anni di intensa e difficile attività di indagine in Cassazione, per aspetti, per quanto fondamentali in uno stato di diritto, di tipo formale.

La lotta alla mafia deve tornare al centro del dibattito parlamentare.

Alla fine degli anni Novanta era stata istituita una commissione ministeriale per la riforma alla normativa antimafia presieduta dal professor Giovanni Fiandaca, che è decaduta con il cambiamento di governo, in cui si prevedeva un’apposita norma incriminatrice della condotta di collateralismo mafioso.

Andrebbe altresì certamente riformulato l’art. 416 ter del codice penale, introdotto dal D. L. 8 giugno 1992 n. 306, dopo la strage di Capaci, che punisce l’accordo politico-mafioso, fino ad oggi applicato raramente, dal momento che richiede la prova di un fatto che non si verifica quasi mai.

Il politico, in cambio dell’appoggio elettorale, per essere perseguibile, deve offrire al mafioso somme di danaro.

Tale elemento necessario costitutivo della fattispecie di reato l’ha reso praticamente inapplicabile.

Bisogna prendere atto che, nell’ambito del fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso, il tema della contiguità assume un’importanza di primo piano.

Le associazioni mafiose, infatti, presentano una particolare attitudine ad intrecciare rapporti di cooperazione, sia attiva, sia passiva, con soggetti “esterni”, attraverso la cui collaborazione esse riescono a condizionare a loro favore tutti i settori della vita associata: la politica, l’economia, le istituzioni, le professioni.

Probabilmente intanto potrebbero risultare più efficaci azioni di contrasto al collateralismo mafioso ricorrendo alla fattispecie del favoreggiamento con l’aggravante mafiosa.

Ma se si vuole davvero sconfiggere la criminalità organizzata i fronti di azione non possono che essere innanzitutto:

1) azioni efficaci per colpire e confiscare i patrimoni frutto dell’attività criminosa, in modo rapido ed efficace;

2) la definizione chiara della fattispecie criminosa di collateralismo mafioso che fornisce oggi linfa vitale alla criminalità consentendo l’infiltrazione in ogni settore della vita pubblica e del contesto sociale.

Adesso si attende un’iniziativa chiara e rapida del legislatore.

Carlo Rapicavoli

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