Utilizzo di internet da parte dei detenuti: è giusto?

Paola Sparano 14/01/13
In seguito ad un’inchiesta, del quotidiano Yorkshire Evening, cinque detenuti del penitenziario di massima sicurezza di Wakfield, nel nord dell’Inghilterra, sono stati accusati di possedere un profilo personale su Facebook.

Il quotidiano, sulla base dell’atto che regolamenta il trattamento dell’informazione delle pubbliche autorità (Freedom Information Act 2000), ha spinto il NOMS (National Offender Management Services) a verificare le identità dei detenuti e ottenere la chiusura dei profili ritenuti illegali.

L’episodio ha sollevato un dibattito sulle restrizioni che oggi sono da ritenersi sufficienti per la sicurezza della comunità.

Se è vero che l’accesso ad internet può essere una minaccia per la comunità e per le vittime dei condannati della “casa dei mostri” (così è chiamato il carcere di Wakfield), è altrettanto vero che il profilo virtuale non implica una relazione diretta con la persona fisica: risulta infatti dall’inchiesta che alcuni detenuti gestissero il proprio account di Facebook attraverso l’attività di parenti e amici.

Il portavoce della sicurezza ha ribadito che “i detenuti non hanno accesso a internet”, ma rimane ancora da sciogliere il nodo delle limitazioni d’accesso alla rete per le persone in stato di reclusione.

Intanto, la sicurezza della prigione di Wakfield viene garantita dal portavoce che assicura il divieto d’accesso anche per i prigionieri in attesa di una sentenza.

Questa vicenda offre notevoli spunti di riflessione.

Alcuni tipi di reato per la loro stessa natura o per la loro gravità risultano essere assolutamente incompatibili con l’utilizzo di internet e dei social network.

Ma l’opinione pubblica si è scissa in due fazioni, la prima che si oppone fermamente alla possibilità di far collegare i detenuti al mondo virtuale e la seconda che ne è favorevole.

Mentre la prima fazione motiva il diniego affermando che il mondo virtuale può offrirsi come un’opportunità per reiterare alcuni tipi di reato o per facilitarne il compimento di altri, la seconda fazione ritiene che vietare l’utilizzo dei social network ai detenuti sia un illegittimo spossessamento dell’identità virtuale nonché un impedimento alla riabilitazione del soggetto nel contesto sociale.

A tal proposito è bene rammentare che parte dei detenuti si trova in carcere per espiare una pena e che risulta indispensabile una distinzione obiettiva di questi in base ai reati da loro compiuti.

Non bisogna altresì dimenticare che tutto ciò che entra o esce dal carcere deve essere meticolosamente controllato così come la corrispondenza; dare l’opportunità ai detenuti di avere una casella di posta elettronica o un account Facebook renderebbe alquanto faticoso se non addirittura impossibile un controllo dei messaggi o delle pubblicazioni di questi.

Concedere l’accesso alla rete in generale o a Facebook ai detenuti condannati per reati sessuali o di camorra, significherebbe dar loro la possibilità di poter continuare a perseguitare le proprie vittime o contattare e continuare a gestire o comunque favorire organizzazioni malavitose.

Sul punto ci saranno sempre opinioni contrastanti ma la possibilità di far usufruire del mondo virtuale ai detenuti potrà avverarsi solo quando si attuerà una netta distinzione tra chi è detenuto per espiare una condanna e chi è detenuto in attesa di sentenza; chi è stato condannato per reati informatici, di violenza sessuale, stalking, diffusione di materiale pornografico o pedopornografico, associazione di tipo mafioso, ect. e chi invece è stato condannato per furto, ect.; ma soprattutto, una volta appurate le dovute distinzioni suesposte, la tecnologia dovrà soccorrere il diritto attraverso la creazione di un sistema informatico con il quale controllare scrupolosamente tutti i contenuti degli accessi ad internet dei detenuti che precedentemente siano stati ritenuti meritevoli dalle Autorità Giudiziarie di tale tipo di riabilitazione sociale.

 

Paola Sparano

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