T.f.r. in busta paga

Lorenzo Sagulo 10/10/14
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Il governo sta vagliando la possibilità di introdurre una grande novità nella prossima Legge di Stabilità. La proposta è quella di far confluire il 50% del trattamento di fine rapporto (T.f.r.), che maturerà nel 2015 e nei successivi anni, nella busta paga degli italiani se e solo se sussista una volontarietà da parte del dipendente in tal senso.

L’obiettivo sarebbe quello di aumentare il reddito nelle tasche degli italiani e quindi rilanciare i consumi.

La scelta è ben discutibile sotto più punti di vista.

Innanzi tutto, cos’è il T.f.r?

Liquidazione, buonuscita o più tecnicamente una retribuzione differita che viene erogata al momento della cessazione del rapporto di lavoro o nel caso ne sussistano le condizioni erogata su richiesta del dipendente parzialmente ed anticipatamente.

Per semplificarne la nozione, corrisponde ad una forma di risparmio a carattere “forzoso” nell’interesse del lavoratore stesso e pari al 6,91 % della retribuzione annua.  Viene rivalutato dell’ 1,5 % + 75% del tasso d’inflazione registrato nell’anno precedente e detta rivalutazione a sua volta viene, infine, tassata annualmente dell’ 11% per armonizzarne il trattamento fiscale rispetto altre forme di previdenza complementare.

Qualora l’azienda abbia meno di 50 dipendenti, il T.f.r viene virtualmente accantonato in azienda ed indirettamente rappresenta un costo sospeso connotabile come una forma di autofinanziamento delle PMI (a meno che il dipendente non abbia scelto di versarlo in un fondo pensione), al contrario per le aziende con più di 50 dipendenti l’accantonamento viene versato in un fondo unico nazionale gestito dall’Inps.

Posto quanto sopra, come la mettiamo con l’eventuale sostenibilità finanziaria dei bilanci dell’ Inps e delle P.M.I.? Ricordiamoci che il flusso annuo di Tfr ammonta a circa 22 miliardi di cui 11 miliardi restano in azienda, 6 miliardi vengono versati al fondo di tesoreria INPS e 5 miliardi circa ai fondi pensione. Qualora i dipendenti decidessero di richiedere l’anticipo in busta paga entrambi i bilanci ne risentirebbero. La soluzione  al “buco” Inps potrebbe consistere in un intervento di copertura da parte dello Stato e per le PMI in un accordo con le banche al fine di utilizzare le risorse stanziate dalla BCE.

Resta certo che le piccole imprese, dal loro canto, temono la mancanza di liquidità nelle casse aziendali in quanto non sono si reputano in grado di sostenere ulteriori sforzi finanziari per alimentare i consumi dei propri dipendenti.

Ma veniamo all’impatto in busta paga, a quanto ammonterebbe detto anticipo? Supponendo una retribuzione mensile lorda pari a 1500,00 € , l’anticipo del 50 % ammonterebbe a circa 50,00 € ma detto questo sorge un quesito, in che modo tassarlo?

La simulazione sopra riportata prevede che l’applicazione dell’aliquota di tassazione agevolata  (23%) scatti al momento della fine del rapporto conteggiando anche gli anticipi, questo in ragione del fatto che l’applicazione dell’aliquota agevolata non sarebbe applicabile mensilmente dato che il legislatore ha più volte affermato che la ricorrenza di medesimi importi in busta paga  fa si che gli stessi vengano computati come retribuzione di fatto, pertanto tassabili solo ed esclusivamente secondo le ordinarie aliquote Irpef.

Infine,  come previsto dall’art. 6 del D. Lgs. n. 314/1997 le somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto rientrano tra i redditi esclusi dalla base imponibile previdenziale. Qualora parte di esso venga inserito in busta paga, in virtù del ragionamento sopra riportato, detti importi dovrebbero essere oggetto di contribuzione gravando ulteriormente sulle aziende che già si trovano in una situazione di difficoltà.

Rassegnate queste prime osservazioni, in una situazione economica, sociale e politica come quella che stiamo vivendo, questo intervento non potrebbe rappresentare una riduzione prospettica non solo dei salari, ma anche delle capacità previdenziali dei lavoratori? Restiamo in attesa di ulteriori sviluppi.

Lorenzo Sagulo

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