Rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto, la Cassazione fa chiarezza!

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Tizio stipula un contratto preliminare mediante il quale si impegna a dare in permuta la proprietà di un terreno, di circa 4500 mq, all’impresa X; quest’ultima, a sua volta, si obbliga a far avere a Tizio la proprietà di 400 mq del fabbricato che di lì a poco intende costruire sul fondo. In pari data, l’impresa X procede all’acquisto del terreno dal proprietario tavolare, un tale sig. Caio. Successivamente, interviene il fallimento dell’impresa X: fase in cui il curatore fallimentare comunica lo scioglimento del contratto preliminare in quaestio, ex art. 72.4 L. Fall. (a nulla rilevando la causa avviata da Tizio, prima del fallimento, nei confronti dell’impresa X, ex art. 2932 c.c. (causa che viene interrotta)). Considerati gli accadimenti, Tizio agisce, dinanzi al Tribunale, per la risoluzione del contratto preliminare e la restituzione del terreno a favore proprio o, in via subordinata, a favore del proprietario tavolare (terzo che ha dato esecuzione al contratto, sig. Caio). Il Tribunale rigetta la domanda affermando che lo scioglimento del contratto provoca la caduta della promessa di vendita e che le pretese del contraente in bonis possono essere soddisfatte mediante insinuazione al passivo. Tizio propone, così, successivo ricorso in appello, ove chiede che venga pronunciata la nullità del contratto preliminare per indeterminatezza dell’oggetto (omessa determinazione del fondo e delle porzioni del fabbricato); in subordine, Tizio lamenta che la restituzione del fondo non può essere soddisfatta mediante l’insinuazione al passivo fallimentare, trattandosi di bene infungibile. La Corte d’appello incaricata dichiara inammissibile la domanda, perché nuova: in proposito, la Corte osserva di non poter rilevare d’ufficio la nullità del contratto, essendone stata richiesta inizialmente la risoluzione (…). Promosso ricorso in Cassazione: la Suprema Corte, a Sezioni unite, cassa la sentenza di secondo grado e fa chiarezza!

Ebbene, l’art. 1421 c.c., ‘’legittimazione all’azione di nullità’’, prevede che: ‘’salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice’’. Tale disposizione ha, dunque, la rilevante funzione di impedire che il contratto nullo possa spiegare i suoi effetti. Ad ogni modo, se è pacifico che il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità nel corso di giudizi promossi al fine di ottenere l’esecuzione del contratto, appare, invece, ‘’controverso’’ che lo stesso abbia tale facoltà anche nella diversa ipotesi in cui l’azione proposta sia di annullamento, o rescissione o risoluzione del contratto (cc.dd. impugnative contrattuali). L’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ha da sempre interpretato restrittivamente l’art. 1421 c.c., ‘’invocando la necessità di coordinare il potere di rilevazione d’ufficio con i principi processuali della domanda (ex art. 99 c.p.c.) e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (ex art. 112 c.p.c.)’’. Secondo la giurisprudenza dominante, infatti, la rilevazione d’ufficio è uno strumento che l’ordinamento riconosce al giudice per implementare le difese del convenuto, e non per far ottenere all’attore più di quanto abbia chiesto. In numerosissime pronunce si evidenzia, per l’appunto, che ‘’laddove sia esperita azione di annullamento, risoluzione o rescissione la rilevazione d’ufficio della nullità favorirebbe in modo inammissibile l’attore attribuendogli una utilità diversa, e addirittura superiore, rispetto a quella dallo stesso richiesta’’ (c.d. vizio di ultrapetizione). Sul versante opposto all’orientamento giurisprudenziale si colloca la dottrina dominante (seguita da sporadiche pronunce della Cassazione): quest’ultima, infatti, evidenzia come le domande di annullamento, risoluzione o rescissione in quanto dirette ad eliminare gli effetti prodotti da un contratto presuppongono che lo stesso non sia nullo. In altri termini, secondo la dottrina prevalente, ‘’attraverso l’azione di annullamento, risoluzione o rescissione si fa valere un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto stesso’’. ‘’Ne deriva che la validità del contratto costituisce una questione pregiudiziale tanto laddove il giudizio sia intrapreso per ottenere l’esecuzione del contratto, quanto nelle ipotesi in cui sia promossa un’azione di annullamento, risoluzione o rescissione’’.

Con la sentenza n. 14828 del 4 settembre 2012 la Corte di Cassazione, Sezioni unite, fa chiarezza e affronta la questione tanto controversa in dottrina e giurisprudenza. A dire della Corte ‘’l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (sopra sommariamente tratteggiato) non è più sostenibile’’. Le Sezioni Unite, con la recente pronuncia, giungono così ad affermare il principio secondo cui ‘’il giudice di merito ha il potere di rilevare, dai fatti allegati e provati o emergenti ex actis, ogni forma di nullità non soggetta a regime speciale e, provocato il contraddittorio sulla questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta ad invocare la forza del contratto (…)’’. Pertanto, ‘’il giudice chiamato a pronunciarsi sulla risoluzione di un contratto, di cui emerge la nullità dai fatti allegati e provati e comunque ex actis, non può sottrarsi all’obbligo del rilievo (e ciò non conduce ad una sostituzione dell’azione proposta con l’altra)’’.

Insomma, si assiste ad un vero e proprio revirement: oggi, il giudice ha il potere-dovere di individuare un’eventuale patologia del contratto genetica e più radicale di quella azionata. Un mutamento giurisprudenziale, si potrebbe dire, atteso considerata l’essenziale categoria della nullità, la quale, va ricordato!, è posta a tutela di interessi pubblici, di valori fondamentali trascendenti rispetto alla posizione delle parti…

Tiziano Solignani

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