In realtà, il problema fondamentale nasce dalla difficoltà del coordinamento tra le suddette norme in esame. Un giusto approccio impone di interpretare sistematicamente tali norme per comprendere i casi in cui il debitore possa considerarsi o meno responsabile per l’inadempimento dell’obbligazione.
Ciononostante, diversi sono gli orientamenti che si sono avvicendati, in dottrina e in giurisprudenza. Secondo la tesi della responsabilità oggettiva (per la quale si applica l’art. 1218 c.c.), affinché si configuri l’inadempimento del debitore è sufficiente la mancata esecuzione della prestazione dovuta, a prescindere da ogni valutazione sull’elemento psicologico; per la tesi della responsabilità soggettiva, il debitore è inadempiente soltanto se ha violato, colposamente o dolosamente, il dovere di diligenza di cui all’art. 1176 c.c.; secondo la tesi mediana, i criteri di imputazione e l’onere della prova dell’inadempimento sono differenti a seconda che si tratti di obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato.
Per le prime, infatti, il debitore si considera adempiente se ha svolto l’attività dedotta nell’obbligazione con la diligenza richiesta, a prescindere dal conseguimento del risultato. Nelle seconde, invece, il debitore assume anche l’obbligo di realizzare un certo risultato, per cui egli è inadempiente se, nonostante l’osservanza dell’obbligo di eseguire la prestazione diligentemente, non realizza l’effetto voluto dal creditore.
In realtà, la giurisprudenza ha statuito che gli artt. 1176 e 1218 c.c. devono essere letti in combinato disposto tra loro, in modo da individuare l’unico criterio di imputazione contrattuale, che è di tipo soggettivo (la colpa) e allo stesso tempo un unico parametro di valutazione dell’adempimento (la diligenza).
Quanto appena detto si applica, dunque, anche alle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale, quale quella del medico o dell’avvocato, anche se con criteri parzialmente diversi: ad essi, infatti, si applicherà, in particolare, l’art. 1176, co. 2, e l’art. 2236 c.c.
Il primo, espressione di una diligenza qualificata richiesta dalla natura dell’attività, si applicherà nei confronti dell’imprudenza o dell’incuria del professionista in relazione alla colpa lieve; il secondo, invece, si applicherà quando sia in discussione la perizia del professionista, intesa come conoscenza ed applicazione di quel complesso di regole tecniche proprie delle leges dell’ars medica ed, in particolar modo, quando la prestazione sia di difficile esecuzione, in relazione al dolo o alla colpa grave.
Riguardo al profilo più specifico della responsabilità professionale del medico, bisogna, innanzitutto, distinguere due profili: la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, che ha natura contrattuale e può conseguire all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a proprio carico ai sensi dell’art. 1218 c.c., nonché all’inadempimento della prestazione medico-professionale eseguita direttamente dal sanitario, in quanto ausiliario dell’ente, ai sensi dell’art. 1228 c.c.
In tal caso, la Corte di Cassazione pone a fondamento della responsabilità della struttura sanitaria la figura del contratto atipico di spedalità, dal quale derivano particolari obblighi a carico dell’ente e dei suoi ausiliari (Cass. Civ. sez. III n. 10616/12; Cass civ. n. 19541/15).
E’ costante l’affermazione secondo cui l’accettazione del paziente in una struttura sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o solo di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di tale contratto atipico, in base al quale la struttura stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si limita all’effettuazione delle cure mediche e chirurgiche, generali e specialistiche, ma si estende a una serie di altri aspetti, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e paramedico, di medicinali e di tutte le attrezzature tecniche necessarie.
Per quanto riguarda, invece, la responsabilità del medico, un orientamento minoritario della giurisprudenza riteneva che essa avesse natura extracontrattuale, inerente la violazione di un generico divieto di neminem laedere. In effetti, era come se il medico avesse un rapporto soltanto indiretto con il malato, rispetto al rapporto contrattuale tra paziente e struttura sanitaria. Da qui derivava il diverso addebito di responsabilità ex art. 2043 c.c.
Peraltro, in verità, secondo l’orientamento ormai dominante in giurisprudenza, anche la responsabilità del medico ha natura contrattuale.
Il fondamento di tale responsabilità si fonda sul cosiddetto contatto sociale che si instaura tra medico e paziente al momento dell’accettazione del paziente in ospedale e della presa in carico da parte del sanitario incaricato. Come effetto di tale contatto sociale tra le parti, il fondamento dell’obbligazione viene individuato nell’art. 1173 c.c., quale clausola aperta generatrice di obbligazioni.
Sotto il profilo probatorio, il professionista che invochi la limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c., avrebbe l’onere di dimostrare che la prestazione effettuata implicasse la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, mentre il paziente danneggiato avrebbe dovuto provare quali fossero state le modalità di esecuzione ritenute non idonee.
Inoltre, per l’accertamento della colpa medica, il danneggiato dovrà anche fornire la prova dell’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta tenuta dal medico e l’evento dannoso subito, facendo riferimento ai parametri e ai criteri delineati dalla ben nota sentenza Franzese della Cassazione.
Anche nell’intento di mettere un freno al dilagare della cosiddetta “medicina difensiva”, nel 2012 è stata emanata la legge “Balduzzi”, con la quale si è riacceso il dibattito sulla natura della responsabilità ascrivibile a coloro che esercitano una professione sanitaria, in caso di danni riportati dai pazienti.
Il legislatore ha previsto l’impunità per l’esercente la professione sanitaria che, sebbene versi in colpa lieve, si attenga, nello svolgimento della propria attività medica, a linee guida, protocolli e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, e ha stabilito che in tali situazioni “resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.”
Soprattutto per il professionista dipendente di una struttura sanitaria, i giudici della Cassazione non hanno avuto dubbi. Infatti, si sono espressi nel senso che non si rinviene alcuna scelta da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità extracontrattuale, dal momento che il suddetto inciso è stato precisato con l’intento di escludere, nell’ambito aquiliano, l’irrilevanza della colpa lieve (Cass. civ., sez. VI, ord. 17 aprile 2014, n. 8940).
Un vivace dibattito è sorto, invece, in seno alla giurisprudenza di merito.
Svariate pronunce hanno desunto dal riferimento all’art. 2043 c.c. una chiara e decisa presa di posizione in favore della tesi extracontrattuale della responsabilità risarcitoria del medico operante all’interno di una struttura sanitaria, con le dovute conseguenze in tema di onere della prova e di termine di prescrizione, ferma restando la natura contrattuale della responsabilità della struttura stessa (Trib. Milano, 14 giugno 2014 e 30 ottobre 2014; Trib. Enna, 18 maggio 2013).
Altra giurisprudenza ha, per contro, sostenuto che il richiamo alla norma in tema di illecito aquiliano non sia sufficiente a concludere che la volontà del legislatore sia stata quella di modificare il titolo della responsabilità medica (Trib. Milano, 18 novembre 2014; Trib. Brindisi 18 luglio 2014).
In relazione, poi, al profilo del consenso informato e alle conseguenze della sua mancata acquisizione, in giurisprudenza, si sono registrati significativi sviluppi.
La Suprema Corte, partendo dall’assunto che il medico viene meno all’obbligo di fornire un’idonea e completa informazione al paziente non solo quando omette del tutto di riferirgli sulla natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca il consenso con modalità improprie, ha cassato la pronuncia che aveva negato il risarcimento dei danni derivanti da un intervento chirurgico effettuato, oltre che come concordato al ginocchio destro, menomato in conseguenza di una caduta dagli sci, anche a quello sinistro, per niente lesionato; non ci si spiegava come mai, avendo ricevuto dal paziente il consenso scritto per l’operazione al ginocchio destro, il chirurgo si fosse indotto ad operare anche quello sinistro, sulla base di un consenso peraltro asseritamente acquisito verbalmente dal paziente, che, inoltre, nel caso di specie non parlava nemmeno la lingua italiana (Cass. Civ., sez. III, n. 19212/2015).
Per di più, la mancata acquisizione del consenso informato, nella misura in cui pregiudica il diritto del paziente all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche, cagiona un danno distinto da quello scaturito dall’erronea esecuzione dell’intervento chirurgico, cosicchè ciascuno dei pregiudizi in esame è suscettibile di autonoma risarcibilità (Cass. civ., sez. III, n. 2847/2015).
Nella giurisprudenza di merito, si è anche ribadito che, in assenza del consenso informato, l’intervento del medico si reputa senz’altro illecito, anche quando è realizzato nell’interesse del paziente, ma la risarcibilità del danno da lesione della salute, viene subordinata all’accertamento che il paziente, se fosse stato adeguatamente informato, avrebbe rifiutato sicuramente quel determinato intervento (Trib. Milano, 31 gennaio 2014).
In conclusione, riguardo all’ultimo profilo della responsabilità del primario e dei suoi collaboratori, si è stabilito l’obbligo per lo stesso di assumere informazioni precise sulle iniziative intraprese dagli altri medici cui il paziente sia stato affidato, indipendentemente dalla responsabilità dei collaboratori, al fine di vigilare sull’esatta impostazione ed esecuzione delle terapie, di prevenire errori e di adottare tempestivamente i provvedimenti richiesti da eventuali emergenze (Cass. civ., sez. III, n. 24144/2010). Il primario non potrebbe invocare l’esonero dalla responsabilità confidando che altri possa correggere il proprio errore (Cass. pen., sez. IV, n. 4985/2014) e si è escluso che, nell’ipotesi di intervento chirurgico effettuato direttamente dal primario, degli eventuali errori manuali da lui commessi nel corso dell’intervento stesso, possano essere chiamati a rispondere anche coloro che vi abbiano partecipato in qualità di aiutanti o assistenti (Cass. pen., sez. III, n. 5684/2013). Non essendo, tuttavia, configurabile una responsabilità oggettiva a carico del primario, quest’ultimo non può essere chiamato a rispondere, semplicemente per il ruolo che ricopre (Cass. civ., sez. III, n. 6438/2015).
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