Referendum Turchia: il sultano Erdogan e il futuro incerto. Cosa accadrà adesso

Il 16 aprile 2017 è il giorno in cui formalmente è morta la democrazia turca. Soppiantata da cosa ancora non si sa per certo, ma senza dubbio il sogno di Ataturk si è infranto con il referendum che ha visto trionfare i Sì (evet) come sperato dal presidente Recep Tayyip Erdogan.

Con il 51% dei consensi, infatti, il popolo turco ha appoggiato la riforma costituzionale propugnata dal leader Akp, ormai ritenuto unanimemente “sultano” dalla comunità internazionale.

Un risultato per la verità largamente atteso, e che l’Osce non ha tardato a definire al di sotto degli standard internazionali viste le sospette irregolarità nello svolgimento del voto.

Del resto, vista la china assunta dal Paese “ponte” tra Europa e Oriente negli ultimi mesi, ipotizzare una sconfitta per Erdogan alla vigilia sembrava alquanto temerario. Tutto è cominciato con il misterioso golpe del luglio 2016, quando in poche ore si passò dal possibile rovesciamento del regime al ripristino dell’ordinamento precedente, ma con maglie ben più strette e controlli ancora più serrati. Non sono in pochi a ritenere, infatti, che il presidente turco abbia costruito ad arte il colpo di Stato poi fallito, per assestare il pugno di ferro e prendere il controllo completo delle istituzioni.

Del resto, che la pancia del Paese fosse in sommovimento lo si sapeva da tempo: già nel 2013 proprio noi di LeggiOggi riportavamo la denuncia di una ricercatrice turca in Italia, a seguito dei violenti scontri di piazza Taksim a Istanbul, espressione di movimenti tellurici nella pancia del Paese, specie in quella più giovane.

I fatti che sono seguiti non hanno smentito queste ricostruzioni: secondo i calcoli degli osservatori internazionali, dal golpe in avanti le persone arrestate in odore di presunta sedizione sarebbero più di 40mila, mentre 140mila sono stimati i dipendenti pubblici allontanati dal posto di lavoro, e centinaia i giornalisti incarcerati, per non parlare delle società e delle università finite sotto rigido controllo governativo.

La vendetta di Erdogan si è dunque riversata su tutti i rivoli della società turca, sia nei mass media, che nelle leve amministrative, che nei centri di costruzione dell’opinione pubblica, che nell’esercito. Una controffensiva che ha tutta l’aria di aver gettato i semi di un regime autoritario oggi compiutamente realizzato, che chiuda definitivamente con la parentesi aperta ormai un secolo fa dal padre della Patria, quel Kemal Ataturk in grado di stravolgere usanze e leggi, avvicinando di fatto il Paese a standard occidentali, quando ancora le democrazie claudicavano e non poco.

Standard che oggi l’Osce accusa la Turchia di non aver rispettato nel referendum di domenica scorsa, in cui si sarebbe ricorso al “doping” di schede non correttamente vidimate, tale da rendere dubbia la regolarità dell’intera consultazione.

In ogni caso, Erdogan e il suo partito cantano vittoria per aver ottenuto l’avallo popolare alla modifica della Costituzione e, in sintesi, essersi assicurati la permanenza al potere per almeno altri dieci anni.

Cosa accadrà adesso

Quello in atto in Turchia, pur con mezzi assai meni limpidi, è un risvolto del processo di ripiegamento delle democrazie occidentali, in cui si gli elettori preferiscono rifugiarsi in Donald Trump o nella Brexit rispetto al fronteggiare le sfide del mondo globale contemporaneo. Quello in Turchia appare come un secco contraccolpo: con l’Islam ancora in bilico tra le proprie tradizioni secolari e la spinta modernizzatrice che porta ad aspri conflitti tra le varie comunità e correnti, l’ormai ex baluardo della democrazia in Asia si allontana un altro passo dall’Occidente e sceglie la via dell’identità, dell’uomo forte e del ritorno alla centralità della sfera religiosa nell’ambito pubblico.

Cosa potrà significare questo, nello Stato che rappresenta un ago della bilancia non solo per la limitrofa Siria, in cui Erdogan ha assunto un atteggiamento a dir poco ambiguo negli anni di conflitto, ma sopratutto nella Guerra fredda 2.0 che rischia di scoppiare da un momento all’altro? E’ infatti lecito domandarsi quale sarà il ruolo di Ankara nei confronti della Russia, con cui aveva stretto un accordo rivelatosi molto debole, specie dopo il sanguinoso assassinio dell’ambasciatore del Cremlino e il recente raid americano contro Assad, benedetto dallo stesso Erdogan.

E ancora, non si può tralasciare il ruolo dell’Europa, che apre ulteriori interrogativi. Col senno di poi, molti si dicono sollevati che la Turchia non abbia mai completato il procedimento di adesione all’Ue, rimasto aperto per anni ma mai definito. Forse, però, è lecito chiedersi qualora, in qualità di membro dell’Unione, oggi Erdogan avrebbe davvero osato tanto. Senza dubbio, qualsiasi ipotesi di collaborazione tra le due sponde del Bosforo – come l’accordo siglato tra Merkel e presidente turco a seguito della crisi dei rifugiati del 2015 – a questo punto appare assai più complicata.

Il nuovo assetto della Turchia, con la soppressione del ruolo del premier e il presidente che incarna il potere esecutivo, rimanendo chiara espressione dei partiti e in grado di estendere il proprio controllo al sistema giudiziario, la rende più simile a un Paese come l’Egitto, in cui è l’uomo forte a detenere il potere con mezzi non proprio cristallini, rispetto a una democrazia compiuta e pluralista. Dunque, un Paese difficilmente inquadrabile nelle dinamiche geopolitiche, ma che per centralità territoriale, storia e importanza, rimane protagonista assoluto di quell’equilibrio internazionale mai così fragile negli ultimi decenni come appare oggi.

 

 

Francesco Maltoni

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