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Di seguito sintetizzo le principali ragioni per cui questa riforma è decisamente da bocciare.
Una riforma del governo
E’ irrituale che a proporre la riforma costituzionale sia un governo e non il parlamento. Piero Calamandrei diceva che quando si parla di riforme costituzionali i banchi del governo devono restare vuoti. E’ il potere legislativo, e non il potere esecutivo che deve farsi promotore di riforme costituzionali, soprattutto se così ampie.
Matteo Renzi senza consenso elettorale
Il governo Renzi non è mai stato votato dagli elettori. So che i sostenitori del sì faranno un balzo sulla sedia, e allora mi spiego meglio. Matteo Renzi non si è mai candidato alle elezioni politiche alla guida di un partito, o di una coalizione di partiti, con l’intento dichiarato di diventare, in caso di vittoria, il nuovo presidente del consiglio; non si è mai candidato alle elezioni politiche con un programma i cui punti qualificanti fossero la riforma della scuola, la riforma del mercato del lavoro e la riforma costituzionale. Nelle elezioni del 2013 il Pd di Pierluigi Bersani, con i cui voti Matteo Renzi governa, non ha mai parlato della riforma costituzionale, né tanto meno di questa riforma costituzionale.
E’ per questo che i sostenitori del sì, ogni volta che sentono parlare di presidente del consiglio non eletto, si stracciano le vesti gridando allo scandalo e ricordando inorriditi che il presidente del consiglio non viene eletto dal popolo ma nominato dal presidente della Repubblica. Tutto vero.
Ma tutti sappiamo che quando andiamo a votare alle elezioni politiche, votiamo anche per il leader di una coalizione di partiti politici che, se vince alle elezioni, diventerà il nuovo presidente del consiglio.
Se nel 1994, dopo la vittoria del polo delle libertà e del buongoverno, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro non avesse conferito a Silvio Berlusconi, vincitore delle elezioni, l’incarico di formare il nuovo governo, che cosa sarebbe successo? Si sarebbe gridato allo scandalo.
I sostenitori del sì, che sono così attenti all’articolo 92 della Costituzione, dimenticano sempre di dire che la nostra Costituzione non prevede che i governi cadano al di fuori del parlamento, con congiure di palazzo. Esattamente quello che ha fatto Matteo Renzi con Enrico Letta.
Una riforma poco democratica
La riforma costituzionale ha diviso il Partito democratico: non tutti gli elettori del partito sono d’accordo con la riforma costituzionale Boschi-Renzi. Perché un partito, che si autodefinisce democratico, non ha discusso di una riforma costituzionale di questa portata nei circoli e nelle sezioni? Perché non ha sottoposto ad essi il giudizio su questa riforma costituzionale, prima di portarla all’attenzione del popolo italiano? E se gli elettori del Pd l’avessero bocciata? Sarebbe stato bene fare le primarie costituzionali con più quesiti, per capire che cosa salvare e che cosa bocciare di questa riforma.
Un parlamento illegittimo
Il parlamento che ha approvato questa riforma costituzionale è un parlamento moralmente illegittimo, perché è stato eletto con una legge elettorale, l’Italicum, incostituzionale. Con la sentenza 1/2014 la Corte Costituzionale ha bocciato l’Italicum, e di conseguenza ha bocciato questo parlamento. Non lo ha dichiarato illegittimo solo per garantire la continuità delle istituzioni democratiche. E’ evidente che un simile parlamento non si sarebbe mai dovuto imbarcare nell’impresa di modificare la Costituzione.
Un Senato non eletto
Se la riforma costituzionale dovesse essere approvata dal popolo italiano, non eleggeremmo più il senato. I senatori infatti sarebbero nominati dai consigli regionali: 74 senatori nominati tra i consiglieri regionali e 21 tra i sindaci delle città capoluogo. La riforma costituzionale infatti prevede che i senatori siano solo 100, e non 315: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci di capoluogo, e cinque senatori a vita. In questo modo si lede il principio di sovranità popolare, ovvero l’articolo 1 della Costituzione, che prevede che la sovranità appartiene al popolo. Con buona pace dei sostenitori del sì, che dicono che la riforma costituzionale non tocca i principi fondamentali, quelli della prima parte. Li tocca eccome. I sostenitori del sì diranno che il popolo esercita la sua sovranità nei limiti previsti dalla legge. Giusto. Sta di fatto che fino ad ora alle elezioni politiche ci davano due schede, una per la Camera e una per il Senato. E dopo, se passa la riforma, ce ne daranno solo una, quella della Camera. Come la vogliamo chiamare? Ampliamento della sovranità popolare?
Altro motivo di scandalo per i sostenitori del sì: non è vero che votiamo i senatori direttamente. E chi vieta di introdurre le preferenze? E’ uno strano argomento logico: siccome la sovranità popolare è limitata, la limitiamo ancora di più, anziché ampliarla.
Come saranno nominati i senatori?
I sostenitori del sì dimenticano di dire che la sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale stabilisce che il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare è il voto. Voto diretto del popolo sovrano, quindi, e non voto indiretto di organi istituzionali. Inoltre, la riforma costituzionale da nessuna parte definisce i consigli regionali come grandi elettori. Se ne sono dimenticati, i nostri novelli padri costituenti.
Un altro buco è che manca la legge ordinaria che stabilisce come dovranno essere eletti i senatori dai consigli regionali. Se ne parlerà se la riforma costituzionale dovesse essere approvata. La riforma infatti stabilisce che l’elezione dei senatori avverrà “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”, ma come non si sa.
Un Senato non eletto ma che fa le leggi
Un altro grave aspetto è che il Senato, anche se non darà più il suo voto di fiducia al governo, parteciperà comunque alla funzione legislativa, pur non essendo stato eletto direttamente dal popolo sovrano. Siamo al limite della incostituzionalità, sempre in riferimento all’articolo primo della nostra Costituzione.
Non potremo più candidarci a senatori
Un altro aspetto da considerare è che adesso anche noi cittadini comuni potremmo candidarci alla carica di senatore. Se la riforma costituzionale dovesse passare, potrebbero diventare senatori solo i consiglieri regionali e i sindaci di capoluogo. Matteo Renzi dice che la riforma costituzionale è contro la casta dei politici, quando invece è proprio vero il contrario: politici nominano altri politici, la casta perpetua sé stessa.
Riforma costituzionale e province
Già succede con le province: non è vero che sono state abolite: semplicemente non votiamo più i consiglieri provinciali e i presidenti della politica. Li nominano direttamente i politici. Si riproducono tra di loro, nel chiuso delle segreterie politiche, sempre più asfittiche.
Un’altra favola è che la riforma costituzionale abolisce le province. Non le abolisce, le toglie dalla Costituzione. Se la riforma costituzionale passa, le province dovranno essere abolite con una legge ordinaria, ancora tutta da scrivere. Intanto però le regioni continuano ad attribuire nuovi compiti istituzionali alle province.
Un Senato irrilevante
La Camera continuerà ad avere 630 membri; il Senato ne avrà 100. Una sproporzione incredibile. Il senato diventa irrilevante nella elezione del presidente della Repubblica; però elegge 2 membri della Corte Costituzionale. La Camera elegge gli altri tre. Inoltre il Senato continuerà ad avere importanti compiti legislativi, ma con solo 100 membri: leggi ordinarie, leggi costituzionali, valutazione delle politiche pubbliche, valutazione delle attività delle pubbliche amministrazioni, verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori, per citare l’elenco stilato dal costituzionalista Alessandro Pace. Ma c’è di più. Tutta questa mole di lavoro dovrà essere svolta da senatori part-time, perché saranno eletti, come ricordato prima, tra i consiglieri regionali e i sindaci di capoluogo.
Ma voi ce lo vedete un sindaco che pianta a metà un’emergenza terremoto o un’emergenza rifiuti o chissà che altro, per andare a fare il senatore a Roma? E come faranno a coordinare le loro agende, ad essere presenti alle sedute del Senato, se avranno altri impegni? E poi i consigli regionali scadono un po’ tutti gli anni, quindi i senatori saranno continuamente sostituiti e avremo un senato variabile, anche nella maggioranza. Infine sappiamo che i consigli regionali in questi anni non hanno brillato per onestà; ma ai senatori sarà in ogni caso lasciata l’immunità parlamentare. Così rischiamo che la carica di senatore diventi uno scudo per proteggere consiglieri regionali e sindaci.
Una congerie di compiti generici
Il nuovo Senato avrà una congerie di compiti generici: rappresentanza delle istituzioni territoriali, funzioni di raccordo tra Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica, partecipa alla formazione delle leggi, valuta le politiche pubbliche, valuta le politiche della pubblica amministrazione, esprime parere sullo scioglimento anticipato dei consigli regionali, partecipa alla elezione del presidente della Repubblica e sceglie 2 su 5 dei giudici della Corte costituzionale. Di tutto e di più. Ma con soli 100 senatori a part time.
La fine del bicameralismo paritario
I sostenitori del sì indicano nel superamento del bicameralismo paritario una vittoria di civiltà. Se la riforma costituzionale dovesse essere ratificata dal referendum il Senato non voterebbe più le leggi ordinarie. Fine del ping-pong, dicono i sostenitori del sì. Infatti adesso Camera e Senato hanno una identica funzione legislativa, e le leggi devono essere approvate con lo stesso testo sia alla Camera che al Senato.
Io sono un convinto sostenitore del bicameralismo paritario. In questo modo il Senato ha una funzione di controllo sulle attività della Camera, e le leggi sono più ponderate. Inoltre, quando il parlamento vuole, approva le leggi in tempi strettissimi: vedi la riforma delle pensioni Fornero o il job act. Quando invece non si vuole le leggi ristagnano, vedi introduzione del reato di tortura o legalizzazione della cannabis. Il bicameralismo paritario non c’entra. Il nostro male costituzionale non risiede nel bicameralismo paritario, ma nel continuo ricorso ai voti di fiducia, anche per approvare le leggi di stabilità, e il massiccio ricorso ai maxiemendamenti.
Riforma costituzionale e plebiscito
Questa riforma costituzionale modifica 47 articoli su 139, ridisegna il parlamento e il rapporto tra Stato e Regioni. Ma sottopone agli elettori un unico quesito, prendere o lasciare. E’ logico che alla fine gli lettori si perdano in tutto questo e che il voto sulla riforma costituzionale diventi il voto su un governo, o meglio, su una persona. E’ lo stesso Matteo Renzi a ripetere continuamente che se perde va a casa, cioè che si dimette, come se dopo di lui ci fosse il diluvio.
Il suo è il 63esimo governo della storia repubblicana. Se cade andremmo a 64, governo più o governo meno, che differenza fa? Se Matteo Renzi non avesse fatto lo sgambetto a Enrico Letta saremmo a 62 governi. Se cade il governo di Matteo Renzi avremo un governo Padoan. Mica avremo paura del ministro dell’economia, spero. Come ricorda Massimo D’Alema, questo referendum in realtà è un plebiscito, e ai plebisciti si risponde no, a prescindere.
I costi della politica
Un altro degli argomenti usati dai sostenitori del sì alla riforma costituzionale è che così si riducono i costi della politica. Sì, va bene, ma a che prezzo? Al prezzo di non eleggere più i senatori e di non poter essere più eletti senatori. Per ridurre i costi della politica basta una legge ordinaria. Tipo quella proposta dal movimento cinque stelle qualche settimana fa. E bocciata dal Pd di Matteo Renzi.
4 procedimenti legislativi
Non è vero che la riforma costituzionale semplifica il procedimento legislativo: in realtà lo complica. Infatti ci saranno almeno 4 procedimenti legislativi.
- Sistema bicamerale: leggi costituzionali, leggi di attuazione delle norme costituzionali, leggi elettorali, di ineleggibilità e di insindacabilità, trattati sulla appartenenza alla Ue, le leggi sugli ordinamenti degli enti territoriali;
- Sistema monocamerale partecipato: per tutte le altre leggi;
- Monocamerale particolare per la legge di stabilità;
- Monocamerale rinforzato, quando il governo interviene su materie di competenza delle regioni invocando la clausola di supremazia, ovvero l’interesse superiore dello stato.
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