Quando le idee mancano, vincono gli slogan: si aboliscano le province, dunque

Luigi Oliveri 03/05/12
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Visto che il Governo ha indetto il concorso a premi “fai la tua spending review” con l’idea di chiedere ai cittadini dove loro taglierebbero gli sprechi, è giusto parteciparvi.

Inutile, probabilmente, aspettarsi troppo dai suggerimenti dei cittadini. E’ chiaro che l’iniziativa produrrà, per quei pochi che risponderanno, per la maggior parte contumelie dovute al fastidio che gli italiani provano per la pubblica amministrazione, la politica e i dipendenti pubblici. Facile immaginare le richieste di licenziare la metà dei dipendenti o di ridurre lo stipendio. Del resto, per anni il Ministro della Funzione Pubblica non ha fatto altro che tacciarli di “fannulloni” e “panzoni”, dunque perché non potrebbero anche i cittadini?

Vedremo quanto sarà produttivo il referendum on-line, ricordando che non sempre il volere del popolo risulta meditato, corretto e lungimirante: la storia accaduta oltre 2000 anni fa in Galilea ce lo dovrebbe ricordare.

Nel frattempo, più illuminati esperti, economisti, professori, imprenditori, hanno già individuato lo strumento che farà risparmiare all’Italia i costi necessari per riprendersi. Lo rivela su Il Sole 24Ore di oggi 3 maggio 2012 Franco Debenedetti, con l’articolo “Servono subito tagli intelligenti: iniziamo dalle province”.

Si era un po’ sopito il dibattito sulle province. Ma, da quando la Bce è tornata sull’argomento, consigliandone l’accorpamento, l’argomento è tornato di gran moda.

Dunque, l’“ideona intelligente” (un po’ come la famosa “canzone intelligente” di Cochi e Renato) per la spending review deve essere, non può che essere l’abolizione delle province.

E’ il mantra ormai ossessivo, dal quale non potrà che liberarci l’effettivo compimento del disegno. Dunque, preghiamo il Presidente Monti di farlo e di farlo in fretta, così che la questione si chiude, si compie il beau geste e si chiude l’argomento.

Ma, contestualmente si aprirebbe il tema che nessuno è in grado o vuole affrontare, ovvero scoprire quale sia il rapporto costi-benefici della soppressione delle province.

L’abolizione “intelligente” delle province, lo affermano sempre oggi 3 maggio nell’editoriale del Corriere della sera Alesina e il neo tecnico governativo Giavazzi, non produrrebbe effetti macroeconomici forti e significativi. Infatti, il decreto “salva Italia”, secondo gli studi della Camera, comporterebbe, se si attuasse il disegno previsto dal suo articolo 23 di espungere dalle province le loro funzioni e si modificasse il sistema elettorale, un risparmio di 65 milioni. Lo stesso Governo, nei documenti che hanno accompagnato la presentazione della spending review lo scorso 30 aprile ha rivisto al ribasso il risparmio: 34 milioni.

Ora, la spending review per il 2012 dovrebbe portare ad una riduzione della spesa pari a 4,2 miliardi. Il Taglio “intelligente” delle province, dunque, sarebbe lo 0,81%. Ma, poiché, come ha spiegato il Governo, vero obiettivo della spending review sarebbe un contenimento della spesa pari a 80 miliardi, la soppressione intelligentissima delle province sul totale del risparmio sarebbe pari allo 0,04% e, rispetto al Pil nazionale (circa 1.600 miliardi) una cifra che le normali calcolatrici non riescono a computare, sicchè occorre dotarsi di foglio elettronico: lo 0,002125%!

Non c’è che dire, uno straordinario risultato di risparmio. Da solo, uno dei caccia F35 costa di più.

La spesa delle province, pari a circa 12 miliardi l’anno, contrariamente a quanto le grida manzoniane diffuse hanno ormai radicato nei ragionamenti, non viene soppressa se si sopprimono gli enti. Per azzerare quella spesa occorre anche adottare una scelta radicale: eliminare tutte le funzioni e competenze che svolgono le province.

Il che, per analisti superficiali, che non conoscono a fondo quello che le province fanno, potrebbe essere un problema risolvibile con una semplice scrollata di spalle. Ma, in realtà, azzerare province e loro funzioni significa eliminare costruzione e manutenzione delle strade provinciali, delle scuole superiori, eliminare il sistema dei trasporti pubblici provinciali, azzerare le attività di controllo e pianificazione ambientale, sopprimere la regolazione della caccia e della pesca, distruggere il sistema dei servizi per l’impiego, divellere la formazione professionale, per rimanere solo alle funzioni principali.

Semplice, in effetti, risolvere la spending review in un taglio indiscriminato delle spese e degli enti, a condizione anche di eliminare i servizi che questi rendono (altro discorso è la qualità di come li rendono).

Poiché, tuttavia, le funzioni e competenze delle province non possono essere eliminate, se non a costo di incidere ancora più negativamente sulla condizione sociale delle persone, qualcun altro dovrebbe accollarsele e svolgere.

Dunque, i circa 12 milioni di spese non svanirebbero, ma semplicemente verrebbero spostate dal bilancio delle province a quello dell’eventuale ulteriore ente che dovesse subentrare. Il risparmio, pari a meno delle briciole visto prima, deriverebbe dallo smantellamento degli apparati di governo. Risultato perfettamente ottenibile anche imponendo la gratuità delle cariche politiche provinciali.

Per spostare il volume di spesa delle province (il Governo nella documentazione inerente la spending review immagina di traslare dalle province ad altri enti 4 miliardi di spesa, senza spiegare come) occorrerebbero, però, manovre normative e finanziarie immani.

Intanto, bisognerebbe essere drastici nella scelta dell’ente che subentrasse alle province. Se si immaginasse, come ancora oggi propone l’articolo 23 della legge 214/2011, di attribuirle ai comuni, sarebbe la debacle totale. Le funzioni svolte dalle province sono per loro natura di area territoriale sovra-comunale: impossibile immaginare comuni che si mettono d’accordo per la manutenzione di strade oltre i loro confini o per scuole che ospitano per lo più studenti non residenti.

Dunque, la scelta fondamentale dovrebbe ricadere sulle regioni. Si creerebbe, così, un mostro amministrativo. Quando nacquero le regioni, si disse che esse non avrebbero rappresentato doppioni dell’organizzazione amministrativa territoriale, in quanto avrebbero dovuto svolgere solo competenze legislative e di alta programmazione. Esattamente all’opposto, le regioni si sono trasformate in enti di minuta gestione, principali protagoniste della parcellizzazione dell’amministrazione in enti ed entucoli in quantità ignota e dai costi immensi. L’acquisizione delle funzioni provinciali finirebbe per completare l’opera della costruzione di un Leviatano amministrativo spaventoso, costituendo un centralismo regionale potentissimo, un contro-potere rispetto a quello dello Stato formidabile. Ma, poiché la gran parte delle funzioni provinciali sono riferiti ad ambiti territoriali provinciali, le regioni non potrebbero che organizzare le loro funzioni per circoscrizioni provinciali o, peggio, essere tentate di costituire agenzie, società, enti chiamati a svolgere, a costi maggiori e con superiore complicazione, le competenze un tempo provinciali.

Inoltre, per completare l’“ideona” della soppressione delle province, occorrerebbe stravolgere totalmente il sistema della finanza locale, rivedendo totalmente le entrate ed i trasferimenti delle province, assegnandole alle regioni (inimmaginabile compiere quest’opera per i comuni). E, contestualmente, occorrerebbe modificare radicalmente il patto di stabilità: le province vi concorrono per decine di miliardi: chi si accollerebbe il peso? Ancora, bisognerebbe modificare radicalmente anche i criteri del contenimento delle spese di personale, vista l’oceanica trasmigrazione di circa 56.000 dipendenti delle province verso altra destinazione.

Tutte queste argomentazioni consiglierebbero di considerare con maggiore attenzione il suggerimento della Bce. Sopprimere le province è un’“ideona” bellissima, come quella di scrivere nella costituzione che lo Stato deve assicurare la felicità dei propri cittadini. Ma, in assenza di una seria valutazione degli sforzi e dei costi, essendo chiaro che i vantaggi macroeconomici, per citare nuovamente Alesina e Giavazzi, sono poco rilevanti, sarebbe forse il caso di indirizzare la spending review verso altri obiettivi, molto più concreti e realizzabili: il primo, porre sotto estrema attenzione la scheggia impazzita della spesa sanitaria, oltre 30 volte superiore a quella delle province. Ma anche abolire totalmente consulenze e collaborazioni esterne (costate nel solo 2010 oltre 2,5 miliardi), sopprimere la dirigenza a contratto fiduciaria, imporre anche alle amministrazioni dello Stato il divieto di avviare appalti in assenza del preventivo impegno della spesa con la conseguenza, in caso di violazione, dell’accollo del debito in capo al politico o funzionario che vìoli tale divieto, impedire del tutto la spesa per convegni, manifestazioni, spese di rappresentanza, uffici stampa e immagine, con la sola eccezione di eventi di chiarissimo rilievo internazionale (Maggio fiorentino, Palio di Siena).

E’ vero che da qualche parte la spending review deve pur iniziare. Ma, di solito, quando si raccoglie acqua o si sgombera la cantina, si comincia dal grosso. Al microscopico si pensa dopo.

Luigi Oliveri

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