In fondo, si tratta di una decisione sufficientemente populista e popolare, come dimostra il consenso ottenuto sul tema da Crocetta in Sicilia, nonostante la regione siciliana tutto abbia fatto tranne che abolire le province: al contrario, manterrà l’ente di secondo livello e da 9 province passerà a 3 città metropolitane e 33 consorzi, alla faccia della razionalizzazione.
Poi, ormai le province, dopo i mille ukaze di Stella&Rizzo ed epigoni, sono da anni nel mirino e dunque la facile scelta di sopprimerle farebbe urlare di gioia non solo gli editorialisti del Corriere della sera, che proprio non dormono finché le province restano operanti, ma anche tutte le forze politiche e i cittadini, in cerca del capro espiatorio.
Da quanto è dato intendere, a differenza del fumo venduto dalla Sicilia, Letta mira ad una riforma della Costituzione e alla totale soppressione dell’ente di secondo livello. Una scelta, questa, di per sé molto più razionale del pateracchio che era stato immaginato da Patroni Griffi, anche perché pare di capire che l’intenzione sarebbe di riorganizzare le regioni, con un assetto organizzativo territoriale che conglobi le province. Anche questa sarebbe una scelta corretta e da condividere, molto più della irrazionale decisione del governo Monti di assegnare gran parte delle funzioni e competenze provinciali ai comuni, enti troppo piccoli e inadeguati alla gestione di funzioni per loro natura sovra comunali (e, infatti, le gestiscono non a caso le province).
Il problema è che, comunque sia, la soppressione delle province rimane pur sempre un pannicello caldo.
Sul Fatto Quotidiano, nell’articolo “Governo Letta, le promesse del nuovo premier costeranno oltre 20 miliardi”, di Francesco Tamburini, si evidenzia che gli impegni assunti da Letta complessivamente costerebbero 20 miliardi e che non sono state indicate da nessuna parte le coperture di simile spesa; l’articolista stima gli introiti dalla soppressione delle province in 2 miliardi: un decimo della spesa.
Tale importo discende da uno studio dell’istituto Bruno Leoni. Chi scrive, per vie diverse, aveva a sua volta immaginato che ottimisticamente, razionalizzando in modo molto più che drastico ed efficiente la spesa delle province, si potesse arrivare ad un risparmio simile.
Nella realtà, è molto più probabile che i risparmi risultino di molto inferiori, non oltre i 750 mila euro.
Sicuramente, la stima di 2 miliardi o inferiore rende giustizia delle superficialità diffuse a piene mani dalla stampa populista che da anni indica che le province “costano” 11 miliardi, confondendo il “costo” con la spesa. Come tutti ormai stanno comprendendo, abolendo le province non si abolisce anche la spesa da esse gestita, ma si può ridurla. Perché le funzioni che svolgono le province restano e per gestirle la spesa non si può azzerare.La ministro Carrozza in questi giorni rilancia il problema della spesa per la sistemazione degli edifici scolastici; ma non ricorda, come dovrebbe, che tale spesa non sta in capo al Ministero dell’istruzione, bensì in capo a comuni e province, queste ultime chiamate alla manutenzione e costruzione degli edifici scolastici della scuola secondaria di secondo grado. Questo dimostra che sopprimendo l’ente, poiché non sparisce la funzione, la spesa a sua volta resta.
Per altro, immaginare di risolvere i problemi finanziari dell’Italia agendo solo sulla corda delle province è risibile. Anche fosse possibile conseguire tutti i 2 miliardi che si fantastica di ottenere, comunque ne mancherebbero altri 18 per pareggiare i conti della spesa prevista da Letta. Ancora, 2 miliardi, rispetto agli 805 che spende complessivamente l’Italia sono lo 0,24%. Ci vuol poco a comprendere come un vero e credibile risanamento della spesa possa passare per altre strade, molto ma molto diverse.
Una potrebbe consistere nell’imporre alle province un piano di risparmi di 2 miliardi, evitando di aprire la via per un elemento che il facile populismo non considera mai, quando si parla della loro abolizione: cioè i costi e i tempi dell’operazione immensa di riorganizzazione e riallocazione della spesa, del personale, del patrimonio e dei contratti. Costi e tempi che sarebbero lunghissimi ed inconciliabili con l’esigenza di “fare presto” da tutti evidenziata.
Detto questo, apparirebbe ben strano che dalle province sole si debba (come è giusto) pretendere un risparmio pari al 18% del loro volume di spesa, senza che similare criterio si applichi alle restanti amministrazioni.
E’ sempre bene ricordar come è ripartita la spesa:
Settore |
Spesa |
Amministrazione Centrale |
141 miliardi di euro |
Previdenza |
311,7 miliardi di euro |
Interessi sul debito |
86 miliardi di euro |
Regioni |
182 miliardi di euro di cui 114 spesa sanitaria |
Comuni |
73,3 miliardi di euro |
Province |
11 miliardi di euro |
Come si nota, le province sono proprio l’ultimo dei problemi.
Applicando linearmente a tutte le amministrazioni un taglio del 18% si otterrebbero risparmi davvero significativi:
Amministrazione Centrale |
141 miliardi di euro |
18% |
25,38 |
Previdenza |
311,7 miliardi di euro |
18% |
56,106 |
Interessi sul debito |
86 miliardi di euro |
18% |
15,48 |
Regioni |
182 miliardi di euro |
18% |
32,76 |
di cui 114 spesa sanitaria |
0 |
||
Comuni |
73,3 miliardi di euro |
18% |
13,194 |
I tagli lineari, però, come sappiamo, sono quanto di più sbagliato si possa prevedere. E tuttavia, visti i potenziali risparmi, che ovviamente crescono al crescere del volume della spesa, pare davvero assurdo, inconcepibile, che l’attenzione si debba concentrare tutta sullo 0,24%. O forse no. In effetti, il populismo vale questo: poco più di zero.
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