Province: adesso emerge la voglia di licenziare 20.000 dipendenti

Luigi Oliveri 18/12/14
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Evidentemente, la vicenda delle province ai commentatori non è chiara. Il Prof. Andrea Giuricin, su il.sussidiario.net del 17 dicembre 2014, nella rubrica Spillo, pubblica l’articolo “Esuberi e tagli, la nuova “farsa” delle Province”.

Nell’articolo, il Giuricin si meraviglia molto che vi siano 20.000 esuberi di dipendenti delle province, adontandosi:

a)      del fatto che le province ancora esistano;

b)      della circostanza che non tutti i 20.000 saranno licenziati

ed auspicando che un buon numero, comunque, sia licenziato, presto o tardi.

Afferma, infatti, il Professore: “L’eccedenza del personale delle Province dunque non è una “stranezza”, poiché è chiaro che quel personale verrà “reinserito” in qualche struttura pubblica. Quel che può sorprendere è il fatto che la totalità dovrà essere “ricollocata”, senza di fatto andare a toccare il costo complessivo del personale. Una macchina burocratica come quella italiana, che dovrebbe essere alleggerita, potrebbe e dovrebbe prevedere dei tagli, così come successo negli anni scorsi in Spagna. Il Governo Zapatero di centrosinistra prima e quello di Rajoy di centrodestra poi sono passati tramite una riduzione degli stipendi e del personale in tutti i livelli di Governo. È possibile che in Italia non si possa mai prendere in considerazione una scelta che possa mantenere i “migliori” dentro l’amministrazione pubblica e ridurre al tempo stesso la spesa pubblica che pesa ormai in maniera eccessiva su tutti i cittadini?”.

Alcune annotazioni si impongono. Si dà per scontato che, in una situazione di crisi come quella italiana, il licenziamento di dipendenti pubblici, anche per decine di migliaia, fa contenti tutti. Quelli che hanno già perso il posto, perché “mal comune, mezzo gaudio”, e “così finiscono i privilegi”, nell’interpretazione assurda che aumentando le persone in difficoltà e disoccupate, che perdono i privilegi, simmetricamente possano migliorare le condizioni di vita degli altri. I professori che guardano dall’alto le scelte scellerate del Governo, in un’ottica liberista, per la quale lo Stato deve “dimagrire” e, dunque, è sempre opportuno licenziare. I membri del Governo, che trovano consensi sulla base degli slogan, che sono riusciti a veicolare: l’abolizione o la riforma delle province “semplifica i livelli di governo”, produce “economie di scala” e “riduce i costi”; nulla di ciò è vero, ma tra slogan ed eventuale licenziamento di migliaia di lavoratori, comunque il Governo non potrà che ottenere lodi e incensi a buon mercato.

All’analisi del Giuricin, tuttavia, pare manchino molti elementi. Lo stesso Giuricin, come è noto, ha elaborato uno studio (qui: http://www.brunoleonimedia.it/public/Focus/IBL_Focus_170_Giuricin.pdf; ribadito con alcune varianti, qui: http://www.brunoleonimedia.it/public/Focus/IBL_Focus_187_Giuricin.pdf) secondo il quale con una riforma delle province seria, si potrebbero risparmiare 2 miliardi delle loro spese.

Bene, quello studio è del 2010. All’epoca, la spesa delle province era di circa 12 miliardi. Dal 2010 al 2013, sono state approvate una serie di manovre finanziarie, che hanno ridotto la spesa delle province a 10 miliardi circa, con un’incidenza di quasi il 20%, mai vista per nessun altro ente.

Dunque, gli ulteriori interventi del Governo, 320 milioni nel 2014, un ulteriore miliardo nel 2015, 2 nel 2016 e 3 nel 2017, porterebbero la riduzione (non è esattamente così, poi vedremo) della spesa delle province, a regime, ben oltre i 2 miliardi di risparmio proposti: alla cifra di 5,320 miliardi. Dal 2017, infatti, la spesa disponibile delle province sarà di 6,580 miliardi circa.

Allora, una prima domanda si pone: considerando che le manovre e gli interventi auspicati dal prof. Giuricin sulle province avrebbero dovuto portare a 2 miliardi di risparmio, è tanto lo stesso avere una riduzione del volume di spesa di 5,320 miliardi?

Un secondo elemento sfugge al Giuricin, che omette per altro molto argutamente alcuni dati. Nell’articolo qui in commento afferma: “Il problema è che la tassazione locale e regionale è in continuo aumento anche a causa della diminuzione dei trasferimenti dello Stato centrale. Tutte le manovre economiche degli ultimi anni hanno visto un taglio dei trasferimenti. Non che nelle Regioni non vi siano colpe nell’inefficienza, ma indubbiamente non è chiaro a nessuno quale sia il disegno di federalismo economico in atto da parte dei diversi esecutivi che si succedono”.

Quale tassazione locale è in aumento? Detta così, sembra quella delle province, insieme con quella dei comuni. Ma, la tassazione delle province, per effetto delle manovre viste prima è stabile. I dati Istat sui conti consuntivi dei comuni, invece, dimostrano che le sole entrate tributarie dei comuni dal 2001 al 2011 sono passate da 22 a 33 miliardi, il 55%! Ecco perché e come la pressione fiscale aumenta. Non certo per un comparto, quello delle province, che vale una spesa pari all’1,15% della spesa totale, a fronte della spesa complessiva dei comuni che è quasi il 9,5%.

Poi, “tutte le manovre economiche hanno visto un taglio dei trasferimenti”. Sì, ma in che misura? Stato, regioni e comuni hanno forse subìto “tagli” complessivi che alla fine porteranno ad una riduzione del volume della loro spesa del 45%? Visto che il Def dimostra che la spesa pubblica fino al 2018 continuerà ad aumentare, la risposta, come il Giuricin ci insegna, è certamente no.

Infatti, la combinazione della riforma Delrio delle province, con la legge di Stabilità non implica nessun risparmio. I 3,320 miliardi a regime di minore spesa delle province, infatti, non corrispondono ad una riduzione di entrata e, dunque, ad un beneficio per la pressione fiscale.

Anche al Giuricin, come alla maggior parte dei commentatori, sfugge che lo Stato né taglia, né riduce trasferimenti alle province. Per la semplice ragione che i trasferimenti (il fondo sperimentale di riequilibrio) sono stati azzerati nel 2013; dunque, non c’è alcun taglio da poter effettuare. La legge di stabilità non taglia nulla: impone, invece, alle province di versare le cifre già viste, a regime 3,320 miliardi, al bilancio dello Stato, che, dunque, continuerà a spenderli. Il volume delle entrate provinciali resterà di circa 10 miliardi, intatto. Infatti, la somma che le province dovranno versare al bilancio dello stato verrà garantito dalla tassa sull’assicurazione RC auto, sulla quale lo Stato si rivarrà, laddove le province non versassero i pagamenti a suo beneficio.

Dunque, l’effetto delle riforme sulle province, ai fini della pressione fiscale è zero. Anzi, meno di zero. Sì, perché, altra cosa che sfugge all’analisi del Giuricin come di moltissimi altri, la riforma punta a colpire le province (e i loro dipendenti), ma in realtà colpisce i cittadini.

I quali, pagando le stesse tasse di prima, avranno dalle province una riduzione dei servizi di valore pari ad almeno i 5,362 miliardi “erosi” in questi anni: dunque, strade provinciali non asfaltate e insicure, neve non sgomberata, scuole non manutenute, sorveglianza su discariche e cave azzerata, trasporti pubblici provinciali senza più corse; questo, solo per limitarsi alle funzioni fondamentali. Includendo anche quelle non fondamentali, si pregiudicano i servizi in campo di sviluppo economico, sociale, turistico e, soprattutto, della formazione e del lavoro.

La ragione per la quale le regioni non vogliono addossarsi le funzioni provinciali è tutta qui: non vogliono prendersi il carico dei 3-5 miliardi di maggiori costi.

Sì, perché abolendo le province o riducendo in vitro la loro spesa, non spariscono per magia i servizi che esse rendevano ai cittadini. Qualcuno dovrebbe pur renderli.

La scelta del Governo, occorrerebbe avvertire il Giuricin, è quella, nella sostanza, invece, proprio di incidere sui servizi, che resteranno senza copertura finanziaria e, dunque, privi di un ente, qualsiasi esso sia, che li eroghi.

Infine, in quanto alla spesa legata al personale, alcune considerazioni specifiche merita che siano enucleate.

In primo luogo, stupisce molto che in una situazione di crisi economica ed esplosione incontrollata della disoccupazione il numero fantasmagorico di 20.000 persone a rischio del lavoro possa essere considerato una sorta di panacea o di festa pagana. Se una qualsiasi azienda dovesse minacciare il licenziamento di 20.000 persone, vi sarebbe, giustamente un immenso allarme sociale.

Gli eventuali licenziamenti dei 20.000 dipendenti provinciali non porterebbero alcun beneficio: non per i licenziati, ovviamente; ma, nemmeno per le casse pubbliche. Infatti, non vi sarebbe un euro di risparmio per i loro stipendi, considerato che, come visto sopra, la spesa pubblica complessiva continuerà ad aumentare, le entrate provinciali resteranno stabili, come la spesa delle province, che per oltre un terzo invece di finire in servizi ai cittadini, andrà nelle casse statali. Dunque, l’eventuale “danno collaterale” di 20.000 o anche se fosse meno, licenziamenti non porterebbe che alla proditoria fine dell’attività lavorativa di queste persone, senza nessun risultato utile per i cittadini. Nessuno.

In secondo luogo, come il Giuricin certamente sa, se è vero che in Italia non si sono effettuati tagli diretti alle retribuzioni dei dipendenti, né si è provveduto ad un programma di licenziamenti, tuttavia:

a)                           si sono posti da 10 anni tetti alle assunzioni, tali che dai 3.600.000 dipendenti pubblici ancora censiti nel 2005, si è passati agli attuali 3.100.000;

b)                          le retribuzioni dei dipendenti sono state congelate dal 2009; nel 2015 si giungerà al sesto anno di blocco, ma il Def fa capire che tale congelamento si prolungherà almeno fino al 2018;

c)                           la spesa pubblica per stipendi è, in conseguenza di quanto sopra, l’unica voce in riduzione, in particolare nell’ultimo lustro; da 172 miliardi è passata in un quinquennio a 163 miliardi e tende ancora a diminuire.

Dunque, sia pure con strade diverse, l’Italia ha ottenuto sostanzialmente gli stessi risultati della Spagna, privandosi (almeno per ora), tuttavia, del piacere di avere un tasso di disoccupazione di oltre il 20%.

Infine, unendo la questione delle province, del personale pubblico e di una funzione importante come quella del lavoro, quale macchina burocratica della pubblica amministrazione italiana andrebbe alleggerita, come chiede il Giuricin? Quella dei centri per l’impiego? Quella, cioè, che vede una spesa complessiva di 500 milioni, contro i 9 miliardi della virtuosa Germania? Quella, ancora, che vede operare 7000 dipendenti, contro i 100.000 addetti sempre in Germania?

La domanda vera, finale, allora, è: ma di cosa esattamente stiamo parlando? Capito questo, si potrebbe forse capire un po’ meglio il merito e le conseguenze delle riforme del Governo sul tema.

 

 

Luigi Oliveri

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