Come al solito, ai nastri di partenza si presenta un numero elevato di candidati, molti dei quali, però, a partire già da queste ore, stanno cominciando a farsi da parte per lasciare spazio agli avversari che hanno raccolto più voti. È il caso, ad esempio, di Jeb Bush che ha già chiuso la propria disastrosa rincorsa, abbandonando ogni proposito di ricalcare le orme del padre e del fratello.
Le primarie americane per la carica di presidente sono spietate, non lasciano scampo: basta il minimo errore e si finisce fuori pista. Ecco perché Hillary Clinton e Donald Trump, fino a ieri candidati front-runner per Democratici e Repubblicani, hanno di che rimuginare dopo il tradizionale appuntamento elettorale che apre ufficialmente la corsa alla Casa Bianca.
Per l’ex first lady, lo Stato del Midwest non è certo una terra di grandi soddisfazioni: nell’ormai lontano 2008, iniziò la clamorosa frenata che aprì la strada al semi-sconosciuto senatore dell’Illinois, un certo Barack Obama, che a sorpresa si aggiudicò la vittoria in Iowa. Questa volta, la 69enne Clinton deve vedersela con un candidato assai differente, il 74enne senatore del Vermont Bernie Sanders, che però ha visto crescere di settimana in settimana il sostegno alla sua campagna. Dopo il primo round, nessuno dei due è andato al tappeto: Clinton e Sanders sono rimasti appaiati rispettivamente al 49,8% dei voti contro il 49,6% e c’è un’ottima probabilità che i delegati per la nomination risultanti dai caucus vengano spartiti in parti esattamente uguali.
Dalla sua, Hillary questa volta può certamente vantarsi di non aver perso, ma sa di non poter più sottovalutare la risalita prorompente di Sanders. Quest’ultimo, infatti, oltre ai voti, sta raccogliendo anche parecchi finanziamenti, grazie a una marea di piccole donazioni provenienti da sostenitori di ogni età – soprattutto giovani – in tutti gli Stati Uniti: altri particolari che ricordano molto da vicino la campagna di Obama otto anni or sono.
Sul fronte repubblicano, invece, il risultato dei caucus è ancora più inatteso: l’uomo copertina di queste primarie, il magnate Donald Trump ha subito una cocente sconfitta a opera di Ted Cruz, senatore del Texas e principale contendente sulla frangia più conservatrice del partito. Il tycoon ha raccolto appena il 24% dei voti, contro il 28% del vincitore: affermazione netta, ma non definitiva, per due ragioni. Anzitutto, Trump ha risorse a sufficienza per tentare di rialzare la testa già dal prossimo appuntamento in New Hampshire, ma soprattutto in vista del Super martedì, in programma il primo marzo, quanto verranno assegnati i delegati di ben undici Stati. Quindi, non va sottovalutata l’ascesa di un altro candidato, quel Marco Rubio alla vigilia dato ormai fuori dai giochi, che invece potrebbe rientrare in scena grazie al risultato di stanotte, giunto a un’incollatura da Trump. Le chance di vittoria del terzo incomodo, infatti, salgono vertiginosamente quando i due principali contendenti catalizzano l’attenzione troppo a lungo.
Insomma, siamo appena alle prime battute di una corsa, quella alla Casa Bianca, che si preannuncia appassionante e ricca di colpi di scena. Una cosa è certa: negli Stati Uniti non basta essere ricchissimi uomini d’affari per diventare presidente. La candidatura va guadagnata sul campo, giorno dopo giorno. E in queste gare ad avere la meglio sono sempre i maratoneti, mai i centometristi.
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