Pregiudizio al minore, litigiosità coniugale e affidamento condiviso

Redazione 22/03/14
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Può considerarsi un dato sicuramente normale quello dell’esistenza, all’interno della famiglia, di momenti più o meno aspri, più o meno frequenti, di conflittualità tra i genitori, soprattutto quando si innesca quella fase patologica di criticità del rapporto coniugale.

E’ opinione comune e condivisibile che la rottura della relazione di coniugio sia una soluzione preferibile rispetto ad una insofferenza reciproca dei coniugi nella convivenza che perduri nel tempo portando maggiore pregiudizio alla serenità del figlio. Il pensiero è abbondantemente confermato dall’aumento esponenziale, in Italia come in Europa, del numero di separazioni e divorzi[1].

La responsabilità del singolo coniuge nella disgregazione dell’unità familiare e le difficoltà interconiugali non sono da considerarsi direttamente incidenti sul rapporto genitore-figlio, salvo che si riconoscano delle specifiche ripercussioni su questo. L’idoneità genitoriale, infatti, “deve essere accertata dal giudice con apprezzamento globale, tenendo conto, oltre che dell’attitudine morale, della personalità del coniuge medesimo, della capacità affettiva, della disponibilità ad un assiduo rapporto e dell’ambiente in cui vive, il tutto in relazione alle esigenze materiali, morali e psicologiche del figlio”[2].

Unanimemente i professionisti del settore riconoscono che posizioni aspre di antagonismo reciproco tra le figure genitoriali, percepite dal bambino, possono produrre effetti negativi sulla sua serenità[3]. I bambini, soprattutto in tenera età, non posseggono, infatti, una struttura di pensiero elaborata tanto da comprendere il conflitto e le relative esternazioni, contestualizzandole, metabolizzandole e rimanendone indenni. I traumi così prodotti possono generare paure, ansie, difficoltà relazionali e sociali in generale, fino anche a difficoltà nel rapporto affettivo e di fiducia con il singolo genitore, venendo meno, nel bambino quella garanzia di protezione e sicurezza che, naturalmente, invece, egli dovrebbe percepire. Il minore, anche in tenerissima età, potrebbe sviluppare un forte sentimento di colpa, spesso anche celato e individuabile solo in modo inconscio, fino ad una paura, a volte anche ingiustificata (nel caso di litigi più “leggeri”) di vivere una separazione da uno o entrambi i genitori.

Il litigio, nei casi più gravi, può portare effetti negativi, concreti ed immediati, anche nella gestione e cura quotidiana della prole. I due genitori, infatti, assillati dal reciproco conflitto, potrebbero rimanere insensibili ai più elementari bisogni del figlio [4]. In data 3 maggio 2012, il Tribunale di Lecce disponeva il ricovero di un bambino di tenera età presso una comunità, insieme alla madre o da solo se la donna avesse rifiutato la collaborazione. I giudici adottavano tale decisione sulla base delle valutazioni di elevata conflittualità tra i genitori e della loro opposizione a qualsiasi forma di interazione con gli operatori, avendo, i due, anche rinunciato ad un progetto elaborato dai servizi sociali, e autorizzato dallo stesso tribunale, come estremo tentativo di responsabilizzare la coppia. I genitori non risultavano in grado di fornire al bambino cure ed attenzioni necessarie, essendo risultati decisivi, in alcuni casi, gli interventi dei nonni per ovviare a gravi negligenze.

La Corte di Cassazione, in una pronuncia del 2011[5], ha precisato che l’affidamento condiviso presuppone  “un accordo sugli obiettivi educativi, una buona alleanza genitoriale e un profondo rispetto dei rispettivi ruoli”, requisiti non presenti nel caso concreto che si trovava ad analizzare, stante l’alto grado di litigiosità fra i coniugi. Nel caso di specie, infatti, il padre, con un legame eccessivamente forte con la sua famiglia di origine, poneva in essere comportamenti fortemente ingiuriosi e denigratori nei confronti della moglie in un contesto già ostile a questa, rappresentato dalla famiglia di lui. La Suprema Corte evidenziava che “tali comportamenti non potevano dirsi occasionali ma frutto di un prolungato e graduale deterioramento dei rapporti”. In una sentenza del 2008[6], la stessa Corte precisava che la mera conflittualità tra i genitori non può escludere l’affidamento condiviso perché, diversamente, si rischierebbe di farla diventare una soluzione solo residuale; si deve, invece, accertare l’inidoneità di un genitore tale da rendere, in concreto, l’affido condiviso, contrario all’interesse del minore[7]. Nella sentenza del 2011, la Corte non ha fatto riferimento a mera conflittualità, ha, invece, analizzato il concreto contesto familiare ricavandone come dall’alta litigiosità esistente, per chiara immaturità di genitore e ascendenti, possano derivare effetti pregiudizievoli per la minore, se non vengono ridotti al minimo i rapporti con i genitori. Secondo il principio espresso nella sentenza n.17191/2011, la Cassazione ritiene che l’eccessiva litigiosità dei coniugi giustifichi l’affidamento esclusivo della prole purché si accerti che dall’affido condiviso possano discendere effetti pregiudizievoli allo sviluppo psicologico del minore e quindi a condizione che il giudice abbia motivato in positivo, con riguardo alla capacità del genitore affidatario, ed in negativo con riguardo alle particolari condizioni del genitore al quale l’affido non viene concesso.

Nella casistica giurisprudenziale, dunque, emerge un giudizio di irrilevanza verso l’elemento della conflittualità tra i genitori ai fini della scelta dell’affidamento condiviso anzi si specifica che “la mancanza di volontà a collaborare non può, di per sé, ostacolare un sistema di affidamento che la legge privilegia, ponendo come unico limite l’interesse del minore; la scelta dell’affidamento condiviso potrebbe contribuire al superamento di quella conflittualità e al recupero di un clima di serenità del quale i figli sono i primi a trarre beneficio”[8]. Si tratta di uno strumento particolare per imporre un dovere di dialogo e di “cooperazione nell’esercizio della comune potestà genitoriale”. Diversamente, in una recente sentenza, del 29 marzo 2012, la Cassazione ha deciso per l’affidamento esclusivo con una “finalità di responsabilizzazione” di entrambi i genitori i quali avevano atteggiamenti ugualmente censurabili. La Suprema Corte, considerando che l’ipercoinvolgimento della figlia nelle controversie tra i genitori ingenerava, in questa, turbamento, confusione ed alterazione dei comportamenti, che l’egocentrismo, l’autoritarismo di entrambi avevano portato ad una “duplicazione della vita della minore”, dispone l’affidamento esclusivo a favore della madre.[9].

Secondo la Corte d’Appello di Perugia “anche in ipotesi di famiglia non fondata sul matrimonio è possibile pronunciare l’affidamento congiunto dei figli minori nel loro interesse materiale e morale anche nonostante le richieste di affido esclusivo e dove permanga una forte conflittualità”[10]. Un’analisi ancora più approfondita è richiesta laddove occorra fondare un provvedimento ablativo della responsabilità genitoriale. Con la sentenza 7961/2010, la Cassazione ha riconosciuto lo stato di adottabilità del minore quando nella famiglia, includendo nella valutazione sia i genitori che i nonni ed altri parenti, si riscontrino rapporti conflittuali  “tali da rendere impossibile la cura del bambino, dovendo prescindere da giudizi di responsabilità e consapevolezza e dovendo, invece, guardare esclusivamente alla situazione oggettiva e all’interesse del minore”. La scelta di una eventuale limitazione o esclusione delle funzioni genitoriali deve seguire ad un’analisi autonoma del rapporto tra genitore e figlio.

Sono, dunque, rilevanti ai fini dell’accertamento di un pregiudizio, e tanto da considerarsi maltrattamento dei minori, le violenze da questi subite anche se in forma solo indiretta perché usate da un genitore contro il coniuge o convivente alla presenza dei figli[11]. Ciò nonostante sia diversa la rilevanza penale attribuita alla condotta esaminata, in casi di particolare gravità, dall’interpretazione costante espressa dalla Cassazione: è esclusa l’integrazione del reato di maltrattamenti in famiglia in ipotesi di liti tra i genitori anche se sfocino in vere e proprie aggressioni fisiche, per assenza dell’elemento psicologico essenziale dato dalla volontà di sottoporre i soggetti passivi alle sofferenze[12] e, in una sentenza più recente[13], la Suprema Corte ha precisato che per configurare il reato occorre verificare l’esistenza dell’elemento oggettivo, l’abitualità della condotta, e dell’elemento soggettivo, un dolo unitario rispetto ai singoli atti della comportamento. Il punto di discrimine è, comunque, da considerarsi molto labile quando ci si ponga dal punto di vista del bambino, inserito in un contesto particolarmente teso dal quale facilmente, ed anche senza episodi di violenza particolarmente espliciti, può derivare un serio disturbo alla sua tranquillità.

Altra criticità, ulteriore rispetto alla già patologica situazione di crisi coniugale, inasprita dalla conflittualità, è rappresentata dalla considerazione che spesso i figli sono “oggetto e, contemporaneamente, arma di attacco e di difesa nella lotta fra i coniugi”[14]. Con la sentenza n.28292 del 28 giugno 2013, la Suprema Corte, in un contesto di accesa conflittualità tra i coniugi separati, caratterizzato da continue offese reciproche, che coinvolgevano anche le rispettive famiglie, ha ritenuto che la minaccia di impedire all’altro coniuge di far vedere i figli, sulla base di un provvedimento giudiziario, in realtà inesistente, può considerarsi una provocazione che può operare da esimente per la reazione messa in atto, anche quando questa avvenga a distanza di tempo dall’offesa ricevuta, essendo sufficiente che essa abbia luogo finché duri lo stato d’ira suscitato dal fatto provocatorio.

ANGELO ARGESE

 


[1] In Italia, nel 2009 si è registrato un incremento del 19,4 % delle separazioni e del 44,9 % dei divorzi rispetto al 2000, seppure nel contesto Europeo il nostro Paese è seguito solo dall’ Irlanda. Dati ISTAT 2009.

[2] Così si esprimeva la Corte di Cassazione, n. 2882 del 9 maggio 1985.

[3] Si veda R. Luberti, M.T. Pedrocco Biancardi, La violenza assistita intrafamiliare, Franco Angeli edizioni, Milano, 2005, Introduzione.

[4] V. Santarsiere, Paralisi educativa del figlio minorenne per conflitto senza soluzione dei genitori, decadenza della potestà, in Giurisprudenza di merito, n. 11, 2011.

[5] Cassazione civile, Sez. I, n. 17191 del 2011.

[6]  Cassazione civile, n. 16593 del 2008.

[7] Più recentemente la Cassazione ha ribadito lo stesso indirizzo nella sentenza 12976 del 24 luglio 2012.

[8] Tribunale Messina 13 dicembre 2006 e, nello stesso senso, il Tribunale Ascoli Piceno che con decreto 13 marzo 2006 mirava ad ottenere una maggiore responsabilizzazione dello stesso genitore non convivente.

[9] Si tratta della sentenza 5108/2012.

[10] Corte d’appello di Perugia in Rassegna giurisprudenziale umbra, 1998, p. 670.

[11]  Trib. Min. L’ Aquila, 15 giugno 2007, in Giurisprudenza di merito, 2008, p.134.

[12] Cassazione penale, sentenza n. 6490 del 3 febbraio 2009.

[13] Sentenza n. 1417 del 19 gennaio 2011. Sul punto si veda anche Cassazione, sentenza n. 41142 del 2010.

[14] M. Costanza, Quale interesse nell’ affidamento congiunto della prole?, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 1/1997, p. 594.

 

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