Piero della Francesca: cosa sapere sulla grande mostra a Forlì

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Due opere a confronto: il Busto di Battista Sforza di Francesco Laurana (1474) e L’amante dell’ingegnere di Carlo Carrà (1921). Sono lontane per secolo, tecnica e stile. Ciò che le unisce, come un filo sottile, è il rimando alla pittura nitida, prospettica, metafisica di Piero della Francesca. Derivano infatti entrambe dalla suggestione del Ritratto di Battista Sforza di Piero conservato agli Uffizi, una delle opere più rappresentative del Rinascimento e paradigma di quella “pittura di luce” che il pittore biturgense porterà al massimo grado in opere celeberrime come la Madonna del Parto, la Resurrezione, gli affreschi con le Storie della Vera Croce nella chiesa di San Francesco ad Arezzo, il Polittico della Misericordia, la Pala di Montefeltro, la Flagellazione di Cristo.

Con questo confronto inizia il percorso  della grande esposizione allestita a Forlì (Musei di San Domenico, 13 febbraio-26 giugno 2016) per indagare forme e modi dell’influenza che il grande genio di Piero ha avuto sulla pittura successiva: dal dialogo con i contemporanei (Domenico Veneziano, Beato Angelico, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi e altri) agli artisti della generazione successiva (Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Luca Signorelli, Melozzo da Forlì, Giovanni Bellini) fino alla riscoperta ottocentesca ad opera dei Macchiaioli (Silvestro Lega, Telemaco Signorini) per arrivare all’arte italiana del Novecento, quando pittori come Carrà, Donghi, De Chirico, Casorati, Morandi, Funi, Campigli, Ferrazzi individuarono una purezza moderna nella “pittura di luce” e critici del calibro di Bernard Berenson, Adolfo Venturi e soprattutto Roberto Longhi (con il saggio del 1914 Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana e la successiva monografia Piero della Francesca del 1927) si incaricarono della sua riscoperta critica.

La mostra, lungi dal presentare un semplice percorso monografico, percorre quindi il filo della fortuna di Piero e della percezione della sua opera nel mondo dell’arte e della critica: dall’oblio dei secoli sedicesimo-diciottesimo alla riscoperta otto-novecentesca che lo ha restituito alla grandezza che oggi gli viene riconosciuta quale genio del Rinascimento. Un’esposizione che spazia tra secoli e stili, dove le opere su tavola di Piero (tra cui lo scomparto centrale del Polittico della Misericordia) dialogano non solo con dipinti antichi e moderni ma anche con libri a stampa, da un’edizione del 1550 delle Vite di Giorgio Vasari al De divina proportione di Luca Pacioli (sarà proprio il matematico, suo conterraneo, a definire Piero “Il monarcha a li dì nostri de la pittura“).

In mostra anche i disegni dell’archeologo inglese Austen Henry Layard (1817-1894), eseguiti nel 1855, che riproducono gli affreschi di Piero con Le storie della vera croce nella Basilica di San Francesco ad Arezzo, e testimoniano l’ondata di interesse per l’arte rinascimentale italiana che intorno alla metà dell’Ottocento investì i circoli vittoriani e portò a viaggiare in Italia, e specificatamente in Toscana, eruditi e conoscitori d’arte anglosassoni.

L’ultima sezione della mostra presenta opere di Balthus (che nel 1926, ventenne, fece un viaggio in Italia durante il quale entrò in contatto con la pittura quattrocentesca toscana, copiando sia gli affreschi di Piero ad Arezzo e la sua Resurrezione che gli affreschi di Masolino e Masaccio alla Cappella Brancacci a Firenze, esperienza che sarà fondamentale per il suo percorso artistico) e di Edward Hopper, nelle cui rarefatte vedute urbane si è individuata una possibile suggestione della luminosità geometrizzante di Piero.

Alessia Guadalupi

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